SIAMO STATI CREATI PER AMARE


La libertà moderna è costruita, secondo H. Arendt (filosofa tedesca naturalizzata statunitense: 1906-1975), su una doppia uccisione simbolica: quella di Dio padre e quella della madre terra (dalla quale evadere verso lo spazio da conquistare, o da sfruttare per fabbricare i nostri manufatti). Ovvero, sulla negazione del fatto che noi siamo “figli di”, che non ci siamo fatti da soli, e sulle implicazioni di questa evidenza: rispetto, gratitudine, fratellanza. Se siamo figli di Dio e della terra, siamo fratelli tra noi e con le altre creature: la stessa “fraternità universale”, la “luminosa fratellanza con tutte le creature” che ha cantato con altissima poesia Francesco d’Assisi.

“Noi non siamo Dio. La terra ci precede e ci è stata data”. Noi siamo stati concepiti nel cuore di Dio insieme a tutte le creature. E se la terra, l’acqua, il vento e le stelle sono nostri fratelli e sorelle, la nostra postura non può essere quella del controllo, del dominio, dello sfruttamento, bensì della tenerezza, di uno sguardo benevolo che si posa sul mondo senza la pretesa di ridurlo a qualcos’altro. Non è un caso che alla “morte di Dio” sia succeduta la perdita di rispetto per la terra.

Così, come ha scritto Maria Zambrano (filosofa spagnola: 1904-1991), “nell’atto di affermarsi l’uomo è inciampato in se stesso, si è aggrovigliato nella sua ombra, nel suo sogno, nella sua immagine: il sogno del suo potere portato all’estremo, convertito in assoluto”.

Dimenticando che Adamo ed Eva, figli di Dio e nati dalla terra, hanno ricevuto un mandato che riguarda tutta l’umanità da quel momento in poi: coltivare e custodire la terra. Due modi di abitare il mondo che non possono essere separati. Non perché indicano spinte contrastanti (modificare e conservare), ma perché esprimono, con sfumature diverse, la risposta all’invito che sin dall’inizio è stato rivolto alla nostra libertà: prendersi cura, creativamente, nella gratitudine. Come scrive Papa Francesco, “siamo stati creati per amare”.

È bello il significato di “custodire” nella lingua di Papa Francesco: cuidar non è fare i guardiani, difendere, sorvegliare (come l’immagine del custode potrebbe suggerire). Piuttosto è guardare con minuziosa attenzione, preoccuparsi, prendersi cura, far crescere ciò che è altro da sé con dedizione. È la sollecitudine che accompagna e nutre, per consentire la piena fioritura di ogni bellezza. È la via che ci educa in modo non moralistico all’alterità, all’incontro che, mentre fa da limite al nostro io, lo aiuta a uscire da se stesso verso l’altro, a trascendersi, a crescere in umanità.

Lo sguardo della cura è uno sguardo rigenerato (ubi amor ibi oculos), che vede la bellezza anche in ciò che pare appassito e contrasta la disumanizzante cultura dello scarto, che colpisce tanto le persone quanto le cose. Ecologia umana ed ecologia ambientale, cura della natura e cura dei fratelli e sorelle fragili camminano dunque insieme. Prendersi cura di tutte le creature, una “cura generosa e piena di tenerezza”, significa prendersi cura di se stessi, perché “tutto è intimamente connesso”. C’è una “relazione di reciprocità responsabile tra essere umano e natura”: se ci prendiamo cura della natura, la natura si prende cura di noi. Se vogliamo dominarla, usarla, si ribella e distrugge.

Il movimento della cura, sbilanciato in uscita, ci educa al legame, al “mistero delle molteplici relazioni” che precede e sostiene la nostra individualità; e in questo modo la solidarietà non è un dover essere che ci imponiamo, ma il riconoscimento che “tutti noi esseri creati abbiamo bisogno gli uni degli altri”.
Per questo l’umanesimo oggi deve promuovere una visione “integrata e integrante”; capace, cioè, di coinvolgere e far crescere “tutto l’uomo e tutti gli uomini”. Capace di mobilitare una “unione di forze, una unità di contribuzioni”: perché ciascuno, anche il più fragile, può portare un contributo. L’umanesimo della dignità è un umanesimo della contribuzione.

Il linguaggio che ci educa alla custodia come cura, che aiuta a coltivare senza sfruttare e a riconoscere la bellezza del mondo come dono è quello della poesia e della preghiera.

Come scrive Rilke (scrittore e poeta austriaco: 1875-1926): “I dolori sono ignoti, l’amore non si impara, l’ingiunzione che ci chiama a entrare nella morte rimane oscura. Solo il canto sulla terra consacra e celebra”.

L’essere umano che si prende cura, che benedice, grato per il dono che non può non voler trasmettere a chi verrà dopo è capace di sperare e per questo di cantare: “Camminiamo cantando! Che le nostre lotte e la nostra preoccupazione per questo pianeta non ci tolgano la gioia della speranza”.