IN MEMORIA DI MONS: LUIGI PADOVESE, OFMCapp.,
VICARIO APOSTOLICO DELL’ANATOLIA
A TRE ANNI DALLA SCOMPARSA
Milano, Chiesa dei Cappuccini di p.le Velasquez, 3 giugno 2013
Letture:
Tobia 1,3; 2,1b-8;
Marco 12,1-12
Carissimi,
lo abbiamo ascoltato nella prima lettura: Tobia passava i giorni della sua vita “seguendo le vie della verità e della giustizia”, e “restando fedele a Dio con tutto il suo cuore”.
E tuttavia persone così, come Tobia, molte volte sembrano smentite dalla storia. Non fanno fortuna, vengono maltrattate dalle vicende della vita e dalle persone che incontrano. Così è capitato anche al padrone della vigna e a suo figlio, che viene catturato e ucciso dai contadini omicidi.
Così capita – in generale – al martire. Oggi celebriamo la memoria liturgica di San Carlo Lwanga e dei suoi compagni, martiri.
Sono stato qualche anno fa a Namugongo, la collina dove sorge il tempio maestoso dedicato ai martiri ugandesi. Su questa collina essi furono martirizzati, arsi vivi in speciali gabbie, di cui ancora si conservano le reliquie.
Il martire testimonia con il dono della vita la sua fede in Dio. Il martire vive più da vicino di tutti gli altri il dramma della croce, della lotta permanente fra le tenebre e la luce. E soccombe, umanamente parlando. Il suo è un fallimento. Ma nella realtà profonda dei fatti e della storia, il martire è quel chicco di frumento, che cade sottoterra, e muore, e proprio per questo porta frutto.
Il seme che marcisce e muore è fecondo di vita nuova.
È precisamente in questa prospettiva che noi oggi facciamo memoria di mons. Luigi Padovese, confratello, collega, amico, a tre anni precisi dal suo martirio.
L’ho conosciuto proprio qui, in piazzale Velasquez, nell’anno accademico 1975-1976. Aveva solo un paio d’anni più di me, ma era già Vicario della Fraternità, e mi ha insegnato la Storia della Teologia antica. Fresco di studi – si laureava in quegli anni con il padre Orbe, alla Gregoriana –, insegnava con entusiasmo e con passione.
Ci siamo incontrati nuovamente una decina di anni dopo, ormai colleghi nell’insegnamento dei Padri della Chiesa: lui Preside dell’Istituto di Spiritualità dell’Antonianum, io Preside-Decano del Pontificium Institutum Altioris Latinitatis. Ho collaborato con lui in diverse occasioni, ma soprattutto nei viaggi di studio in Turchia, tra Efeso e Tarso.
Per un certo periodo siamo stati anche vicini di casa, sul Grande raccordo anulare. Così lo andavo a trovare, e mi rivolgevo talvolta al suo consiglio e al suo aiuto – come per esempio nel 2004, quando fui chiamato a predicare gli Esercizi Spirituali ai Vescovi della Liguria.
Sapevo che lui aveva appena predicato ai Vescovi della Lombardia, e così gli chiesi qualche sussidio. Mi passò i suoi appunti, che credo siano rimasti inediti.
Ecco: ne voglio leggere un passo, perché da qui si può ricavare una sorta di autoritratto – certo non previsto, né voluto – di padre Luigi.
All’inizio di una meditazione, padre Luigi disse:
«In un libro che scrissi anni fa sulle 140 statue di santi che adornano il colonnato della piazza san Pietro, dopo aver fatto parlare 54 dei presenti sulla base dei loro scritti o di episodi della loro vita, m’è parso giusto che essi inviassero dei messaggi alla componente del popolo di Dio cui erano appartenuti. È in questo contesto che prende la parola Giovanni Crisostomo, sacerdote e vescovo. “Se permettete – disse – inizio io rivolgendomi ai miei confratelli nell’episcopato. Mentre ero in vita, indirizzai loro uno scritto sulla dignità del sacerdozio. Mi pareva giusto allora richiamare alla grandezza del nostro incarico, agli impegni assunti. Oh, certo, lo farei anche oggi, eppure le prime parole che userei sono di consolazione. So bene che in quanto capi di comunità siamo al centro dell’attenzione e siamo bersaglio di critiche poiché non abbiamo la solitudine che fa da velo ai nostri limiti. ‘La celebrità popolare, quanto più rende famosa ed illustre una persona, tanto più le procura rischi, inquietudini ed amarezze. Chi ha un padrone così tirannico, non può assolutamente permettersi di avere un momento di respiro, di fermarsi un istante’. Il fatto è – riprese – che tutti vogliono giudicarci non come esseri di carne, ma come angeli immuni da debolezze. Pertanto valutano i nostri errori e le nostre debolezze non dalla rilevanza di ciò che è stato commesso, ma dalla dignità di cui siamo investiti. Pochi hanno il coraggio di correggerci, ma molti si sentono in dovere di criticarci. Non vorrei certo dire che le critiche siano sempre ingiustificate. Anche noi ci guardiamo ogni giorno allo specchio della coscienza, e non ci è difficile osservare i difetti e le rughe che con gli anni non si cancellano, ma si allargano. E se qualcuno di noi, per qualche ragione, non le vede, è bene che incominci a preoccuparsi. Infatti siamo chiamati ‘episcopi’ proprio perché il nostro compito è quello di tener gli occhi ben aperti, di scrutare, di vigilare. Nondimeno certe critiche paralizzano e inducono allo sconforto. Un giorno ho detto che ‘la guerra è piacevole per chi non l’ha sperimentata’, ma per noi vescovi, dopo l’esaltazione dell’elezione e il frastuono della festa, la vita risulta un’incessante battaglia… Siamo esposti a tutti, e spesso non possiamo offrire agli altri che una sterile compassione e sperimentiamo l’impotenza del nostro fare. Per non parlare poi della preghiera, della quale non rimane che la forma, travolti come siamo in ogni direzione da impegni molesti, incessanti e a volte così lontani dalla nostra funzione di guide spirituali. Siamo chiamati ad essere una ‘grazia’ per chi ci incontra, cioè ‘un segno efficace’. Eppure, tra noi alcuni sono ‘segno’ senza essere efficaci, o sono efficaci senza essere segno. Nonostante tutto, direi ai vescovi del terzo millennio di non perdersi d’animo. Ricordino che non sono soli nell’esercizio del proprio compito».
Di fatto, padre Luigi non si sentiva solo. Benché nella sterminata Anatolia avesse pochi cristiani da governare, manteneva relazioni costanti e affettuose con numerosissime persone.
Era un vescovo in ascolto dell’Altro, in ascolto degli altri.
È di questo che voglio parlare adesso, e così concludo.
Padre Luigi coltivava nella sua vita un’autentica dimensione contemplativa. «La preghiera – così proseguiva la meditazione ai Vescovi, che ho citato sopra – è uno dei compiti primari del vescovo, maestro di preghiera in quanto uomo di preghiera. E tale lo è perché successore di quegli Apostoli, che furono costituiti da Cristo anzitutto “perché stessero con lui” (Marco 3,14) e che, all’inizio della loro missione, fecero una solenne dichiarazione, che è un programma di vita: “Noi ci dedicheremo alla preghiera e al ministero della parola” (Atti 6,4). In fin dei conti, il senso della missione sacerdotale è quello di creare e mantenere in sé e nei propri fratelli una relazione viva e personale con Dio, così come Gesù l’ha manifestato. L’evangelista Giovanni nel suo Vangelo, che costituisce “un mare di simboli”, dichiara che Gesù è il rivelatore del Padre perché è nel suo seno (eis ton kolpon tou Patros: Giovanni 1,18). Con questa immagine egli voleva esprimere che la conoscenza di Dio è frutto d’intimità. Lo stesso tipo di conoscenza l’evangelista l’esprime parlando allusivamente di sé come di colui che Gesù amava, e che pose il suo capo sul petto di Gesù (en to kolpo tou Iesou: 13,23). Nell’unanime tradizione della prima Chiesa è questa esperienza che ha fatto di lui “il teologo” (Iohannes ho theologos)».
A ben vedere, come dicevo prima, queste espressioni fanno emergere in filigrana il ritratto spirituale più vero di padre Luigi.
È facile, per noi, l’attualizzazione del discorso, in quest’anno della fede.
Ne scaturisce un esame di coscienza necessario per chi vuole ritrovarsi nella “cordata testimonianza” dei Padri che ci hanno preceduto nella fede, dai Padri della Chiesa, fino al padre Luigi Padovese.
Di fronte alla sfida di certa cultura nichilista e atea, si può vincere solo con un “di più” di preghiera e di intimità con la Parola di Dio.
A noi, credenti del terzo millennio, i Padri consegnano ciò che a loro volta hanno ricevuto, che ha plasmato il loro cuore e la loro vita: perché la fede, la speranza e l’amore possano vincere il mondo.
+ Enrico dal Covolo
Carissimi tutti,
il nostro Enzo mi ha gentilmente inviato una foto particolare per ricordare una persona a noi tanto cara, ci ha ospitato nella sua casa in Turchia, una frate cappuccino, un sacerdote, un
vescovo monsignor Luigi Padovese.
Uniamoci in preghiera tutti insieme unitamente ai nostri frati cappuccini, a tutta la chiesa e ai cristiani martiri nel mondo che portano il messaggio evangelico di pace e amore che viene da
Gesù.
“Hanno perseguitato me perseguiteranno anche voi”.
Vi abbraccio
Anna
Le esequie saranno celebrate in Duomo a Milano lunedì 14 giugno alle ore 10,30 e saranno presiedute dal card. Dionigi Tettamanzi.
ROMA, giovedì, 3 giugno 2010 (ZENIT.org).- E’ morto un sant’uomo. Un martire del dialogo e della pace. Un amico personale e della redazione di ZENIT. C’è solo da sperare che il suo assassinio non
alimenti divisioni, estremizzazioni, conflitti.
Monsignor Luigi Padovese, Vescovo di Iskanderun, Vicario apostolico dell'Anatolia e presidente della Conferenza Episcopale Turca, era un uomo buono e saggio.
Uno studioso di altissimo livello, professore titolare della cattedra di Patristica alla Pontificia Università dell'Antonianum di cui è stato per 16 anni direttore dell'Istituto di Spiritualità.
Ha insegnato anche alla Pontificia Università Gregoriana e all'Accademia Alfonsiana.
Tra i maggiori esperti di San Paolo, ha pubblicato diversi volumi, l’ultimo dei quali insieme a Oriano Granella con il titolo "Guida alla Turchia, I luoghi di San Paolo e delle origini cristiane"
(Paoline 2008).
Un pastore con un cuore grande, prodigo di buone parole, mai una polemica, impegnato quotidianamente a cucire rapporti e curare relazioni al fine di far crescere e consolidare la fiducia
reciproca tra le persone di diversa religione, il dialogo, la pace.
In un intervento pubblicato su “Mondo e Missione” nel 2007, si definì “amico e innamorato della Turchia” e metteva in guardia dalla strumentalizzazione dell’Islam a fini politici e
nazionalistici.
La Santa Sede nutriva molte speranze sul suo lavoro. Per dieci anni è stato visitatore del Collegio Orientale di Roma per la Congregazione delle Chiese Orientali, oltre che consulente della
Congregazione della Congregazione per le Cause dei Santi. L'11 ottobre del 2004 è stato nominato Vicario apostolico dell'Anatolia.
Monsignor Padovese metteva passione e amore nella cura delle persone, sia per far rivivere le diverse comunità cristiane turche che per alimentare buone relazioni con l’Islam e con le altre
comunità cristiane.
Proprio ieri, 2 giugno, aveva incontrato le autorità turche per affrontare i problemi legati alle minoranze cristiane e domani sarebbe andato a Cipro, per incontrare Benedetto XVI, in viaggio
sull'isola per pubblicare l'Instrumentum Laboris del Sinodo per le Chiese del Medio Oriente.
Il Vicario apostolico dell’Anatolia riusciva a trovare parole di pace e di bontà anche di fronte a situazioni terribili.
Quando nel 2006 fu ucciso a Trabzon il sacerdote Fidei Donum don Andrea Santoro, nella messa di suffragio mons. Padovese disse: “Noi perdoniamo chi ha compiuto questo gesto. Non è annientando chi
la pensa in modo diverso che si risolvono i conflitti. L’unica strada che si deve percorrere è quella del dialogo, della conoscenza reciproca, della vicinanza e della simpatia. Ma fintanto che
sui canali televisivi e sui giornali assistiamo a programmi che mettono in cattiva luce il cristianesimo e lo mostrano nemico dell’islam (e viceversa), come possiamo pensare a un clima di
pace?”.
E riferendosi al sacrificio di don Santoro, aggiunse: “Chi ha voluto cancellare la sua presenza fisica, non sa che ora la sua testimonianza è più forte”.
Commentando tra le lacrime la morte di monsignor Padovese, Maddalena la sorella di don Andrea Santoro ha detto all’agenzia Apcom "Padovese era veramente un cristiano autentico e questo lo
manifestava e lo mostrava con la sua bontà. Non c'era ambiguità nel suo comportamento, non faceva distinzione e aveva piena fiducia in tutti, anche nel suo autista. Mi auguro che in Turchia si
aprano gli occhi per cercare di capire e comprendere cosa c'è dietro questa situazione. Perchè anche i musulmani devono saper accogliere i cristiani. Senza temere che vogliano convertire".
Riporta l’Adnkronos che in una intervista rilasciata lo scorso 26 maggio, il Vicario apostolico dell’Anatolia spiegava che "tra i frutti dell'Anno Paolino e dei tanti pellegrinaggi che qui
continuano ad arrivare, c'e' anche la maggiore consapevolezza dei cristiani locali della preziosita' di questi luoghi per la tradizione cristiana. La presenza dei pellegrini ridesta la certezza
di vivere in una Terra Santa".
"Altro effetto positivo – affermava Padovese – riguarda i musulmani. Essi vedono che giungono cristiani che, lungi dal voler sfruttare turisticamente il posto, si mettono in atteggiamento di
preghiera e ciò aiuta a superare diffidenze reciproche che si sono accumulate nel passato. Credo che la testimonianza più bella che si possa dare alla Turchia sia quella di vedere uomini e donne
che pregano".
Siamo sgomenti per quanto accaduto, ma rinnoviamo la nostra fiducia nella Divina Provvidenza, nutrendo la speranza che il sangue versato eviti conflitti e susciti pace e riconciliazione.