L’INDIFFERENZA
di Anna BISSI
L’indifferenza, chiudendo il cuore alla vita che lo circonda,
depaupera l’uomo di ciò che lo rende veramente tale,
vale a dire della sua capacità relazionale.
“C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti. Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso
di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe” (Lc 16,19-21).
L’incipit della parabola comunemente denominata del “ricco epulone” ci offre l’immagine di un uomo che potrebbe essere definito come il prototipo dell’indifferenza. Attento all’apparenza,
desideroso di dare di sé la miglior immagine possibile, si presenta vestito con tessuti eleganti e raffinati; concentrato su di sé e sulla gratificazione dei propri bisogni, ogni giorno si
concede pasti succulenti e abbondanti. A questa cura eccessiva fa riscontro una sorta di cecità nei confronti dell’altro, di cui non vede la sofferenza.
Vediamo così in atto un processo di disumanizzazione: nonostante non gli costi nulla sfamare il povero Lazzaro, che si accontenterebbe degli avanzi caduti dalla sua tavola, egli non muove un dito
per arrecare sollievo al suo dolore. Come Caino che, interrogato da Dio su dove fosse suo fratello, rispose negando il proprio ruolo di custode dell’altro (cfr Gen 4,9), l’uomo ricco della
parabola esce dalla vocazione - tipicamente umana - alla fraternità, per pensare solo a sé.
Ed ecco che il dramma si manifesta in tutta la sua tragicità: il male dell’uomo può essere talmente grande da arrivare là dove gli animali non giungerebbero mai.
Così, nella parabola, l’istinto dei cani li orienta verso un’attenzione alla sofferenza altrui, verso atti - come quello del lenire il dolore delle ferite - che il cuore umano avrebbe dovuto
suscitare, ma che invece non è riuscito a far compiere. Dramma dell’indifferenza che arriva fino al punto di non vedere i segni del dolore di cui, invece, i cani sono diventati consapevoli.
Educare all’empatia
L’indifferenza è, dunque, un grave male dell’anima: grave perché depaupera l’uomo delle sue caratteristiche fondamentali, di ciò che lo rende veramente tale, vale a dire della sua capacità
relazionale. Noi, infatti, diventiamo noi stessi solo grazie alle relazioni, che ci permettono di sviluppare tutte le nostre potenzialità e, in primo luogo, la capacità di amare, qualità
tipicamente umana. Perché questo possa avvenire, però, bisogna che il nostro sguardo si sollevi da noi stessi e si posi sull’altro, percepito non solo come l’oggetto di cui usufruire, ma anche
come il simile da riconoscere e amare.
Per realizzare tutto ciò l’essere umano è dotato di una capacità particolare: l’empatia, che gli permette di sintonizzarsi con l’altro, percepire ciò che vive e, di conseguenza, farsene carico.
Tale capacità va tuttavia educata, favorita: là dove il bambino è trattato come il piccolo re avente diritto alla gratificazione totale dei propri desideri e non è invece aiutato a riconoscere i
diritti altrui, l’empatia non si sviluppa o rimane bloccata, provocando così atteggiamenti di disinteresse, indifferenza e la totale assenza di solidarietà.
Altri fattori, inoltre, interferiscono in questo processo e condizionano non solo il bambino ma anche l’adulto. Un ruolo importante è svolto dai mezzi di comunicazione, là dove questi sollecitano
l’egoismo personale presentando l’altro - soprattutto se straniero o diverso- come un potenziale nemico, un usurpatore dei nostri diritti. Il modo in cui viene mostrata dai mass media la
violenza, spesso banalizzata ed esposta senza riguardo agli occhi di tutti -bambini inclusi- rende quasi normale ciò che, in realtà, è drammaticamente anomalo. Per accettarla siamo costretti a
difendercene: siccome essa ci fa paura, ce ne distanziamo, osservandola con gli occhi freddi di chi non è coinvolto. Il passaggio dall’atteggiamento auto protettivo, rispetto a un’aggressività
che ci spaventa e ci turba, all’indifferenza è breve e automatico. Così abbiamo imparato a guardare ai drammi umani che la televisione ci presenta con l’occhio distaccato di chi non è coinvolto.
Il nostro cuore tende ad assuefarsi facilmente a questi modi di percepire la realtà, che ci condizionano notevolmente.
Per fortuna nella nostra società si levano voci che vanno nella direzione opposta. La più eloquente è forse quella di papa Francesco, che numerose volte ci ha messo in guardia nei confronti di
questo male,tipico della nostra epoca. Significativa a questo proposito è stata la decisione di scegliere come meta della sua prima uscita dal Vaticano l’isola di Lampedusa, miraggio di pace per
migliaia di disperati. Ancora più incisive le sue parole: “Quasi senza accorgercene, diventiamo incapaci di provare compassione dinanzi al grido di dolore degli altri, non piangiamo più davanti
al dramma degli altri né ci interessa curarci di loro, come se tutto fosse una responsabilità a noi estranea che non ci compete. La cultura del benessere ci anestetizza e perdiamo la calma se il
mercato offre qualcosa che non abbiamo ancora comprato, mentre tutte queste vite stroncate per mancanza di possibilità ci sembrano un mero spettacolo che non ci turba in alcun modo” (EG
54).
Come nella parabola del ricco epulone, anche qui si sottolinea il nesso fra “benessere” e “indifferenza”, un nesso all’apparenza non così consequenziale: siamo, infatti,tentati di pensare che là
dove il necessario non manca, l’uomo sia privo di preoccupazioni e, di conseguenza, più disponibile a farsi carico degli altri. La storia ci insegna che non è così; al contrario, più possediamo e
più egoisti diventiamo.
Un po’ di fatica e rinuncia
Questa constatazione fa riflettere e induce a considerare l’importanza della fatica e della rinuncia come elementi indispensabili per la maturazione della persona. Fatica e rinuncia, infatti,
strutturano la persona, le donano stabilità e sicurezza rispetto alla capacità di affrontare la vita; nello stesso tempo la aprono alla relazione, perché favoriscono lo sviluppo di capacità
tipicamente umane, quali la solidarietà e l’empatia. Solo se sperimento “sulla mia pelle” che cosa significa lottare e impegnarsi per raggiungere una meta o conquistare un bene tanto desiderato,
posso percepire qualcosa del vissuto altrui, quando questo comporta l’esperienza della privazione e della mancanza. Se possediamo tutto, viviamo una vita da individui che, uno accanto all’altro,
mirano solo a se stessi e a ottenere tutto quanto desiderano. Se percepiamo che i nostri desideri possono essere soddisfatti ma anche frustrati, viviamo da persone in relazione, capaci di alzare
lo sguardo e diventare consapevoli delle fatiche altrui. Lo sforzo e la privazione allargano gli orizzonti: è bene ricordarsene, soprattutto pensando all’educazione dei figli, senza fare di essi
il metodo educativo ideale, ma imparando a calibrarli, affinché alla soddisfazione del bisogno si accompagni anche la fatica di attenderlo e desiderarlo, fatica che ci rende solidali con chi - e
sono in tanti - non conosce appagamento ma solo frustrazione.