LA FORZA DELLA DEBOLEZZA E LA SCELTA DI FRANCESCO
Mons. Franco Giulio Brambilla - Vescovo di Novara
“La Rivista del Clero Italiano 3/2013 - editoriale
Quando Paolo VI, primo pontefice che tornava nella terra di Gesù,si recò in Terrasanta dal 4 al 6 gennaio 1964, si racconta che, arrivato alla chiesa del Primato a Tabgha, dopo la visita ufficiale, domandò di essere lasciato solo a pregare nella piccola cappella che s’affaccia sul lago di Galilea. A fianco c’è un tratto di spiaggia rimasto intatto, con le onde che lambiscono ancora la sponda, come ai tempi di Gesù. Se scendete sulla piccola spiaggia nella brezza del mattino potete ancora ascoltare, portata dal vento, la domanda di Gesù al primo degli apostoli: «Pietro, mi ami più di costoro?». E sentirete risuonare il commento di sant’Agostino: «E questo una, due, tre volte. Viene interrogato l’amore e dato il ministero, perché dove l’amore è più grande lì la fatica è minore». Paolo VI era nel vivo del Concilio, dopo la seconda sessione, che aveva visto l’assise dei Vescovi muovere i primi timidi passi con l’approvazione della Sacrosanctum Concilium. Restavano ancora documenti importanti da portare a compimento, come la Lumen Gentium, che faticava a decollare, la Dei Verbum e la Gaudium et spes. Rinchiuso nella chiesa del Primato – così ebbe a confidare al suo segretario molto tempo dopo – prostrato sul duro sasso, attorno a cui è costruita la chiesa, Paolo VI meditò a lungo sulla debolezza di Pietro.
Del primo degli Apostoli e dell’ultimo che allora, nella grande assemblea del Concilio, doveva condurre in porto la barca di Cristo che attraversava il mare aperto del Vaticano II.
Mi è tornata in mente questa scena quando Benedetto XVI, con un’incantevole semplicità, ha scritto l’enciclica sull’umiltà, l’ultima grande catechesi che il Papa emerito ci ha lasciato. Il Pontefice si trovava nella Piazza san Pietro stracolma di gente, mercoledì 27 febbraio, il giorno prima della fine del suo ministero, termine annunciato da egli stesso con infallibile precisione. Le cronache davano in arrivo un’enciclica sulla fede, ma che, data l’accelerazione dei tempi, è rimasta negli archivi. Amo pensare che quest’ultimo discorso, insieme ai gesti delle ultime due settimane del pontificato, rappresentino l’enciclica non scritta, appunto quella sull’umiltà. L’ultima catechesi ne è come l’ardente testimonianza e la viva rappresentazione. Senza nessuna enfasi, come ogni altro mercoledì, confidando nella forza della Parola, il Papa con grande delicatezza apriva il suo cuore e rappresentava la viva icona dell’umiltà di chi ha portato un fardello insostenibile, con una fiducia assoluta nel suo Signore. Sentiamo l’inizio del testo: «Quando, il 19 aprile di quasi otto anni fa, ho accettato di assumere il ministero petrino, ho avuto la ferma certezza che mi ha sempre accompagnato: questa certezza della vita della Chiesa dalla Parola di Dio. In quel momento, come ho già espresso più volte, le parole che sono risuonate nel mio cuore sono state: Signore, perché mi chiedi questo e che cosa mi chiedi? È un peso grande quello che mi poni sulle spalle, ma se Tu me lo chiedi, sulla tua parola getterò le reti, sicuro che Tu mi guiderai, anche con tutte le mie debolezze». Nel ricordo retrospettivo emerge con chiarezza la coscienza della sproporzione infinita tra il ministero affidato e la debolezza di chi lo deve portare. È questa l’enciclica sull’umiltà, che Benedetto ha scritto con i gesti e le parole degli ultimi giorni.
La parola umiltà deriva dal latino humus, terra, dove affondiamo le nostre radici. Non c’è nessuna fede che possa essere limpida, trasparente, se non continua a ritornare a queste radici, ad alimentarsi all’acqua e ai sali, contenuti nella terra, per poter crescere rigogliosa. Una pianta deve lavorare in profondità, per espandersi frondosa e verdeggiante, per sostenere la forza dei venti e delle tempeste, per sopportare l’arsura del sole e la calura dell’estate. Così ci appariva in quel limpido mattino del 27 febbraio il volto del pontefice, pura trasparenza di chi aveva condotto con sapienza e fermezza la barca di Pietro.
Anzi di Cristo. Infatti, nell’ultima catechesi pubblica, papa Benedetto sottolineava con grande efficacia: «E otto anni dopo posso dire che il Signore mi ha guidato, mi è stato vicino, ho potuto percepire quotidianamente la sua presenza. È stato un tratto di cammino
della Chiesa che ha avuto momenti di gioia e di luce, ma anche momenti non facili; mi sono sentito come san Pietro con gli Apostoli nella barca sul lago di Galilea: il Signore ci ha donato tanti giorni di sole e di brezza leggera, giorni in cui la pesca è stata abbondante; vi
sono stati anche momenti in cui le acque erano agitate ed il vento contrario, come in tutta la storia della Chiesa, e il Signore sembrava dormire. Ma ho sempre saputo che in quella barca c’è il Signore e ho sempre saputo che la barca della Chiesa non è mia, non è nostra, ma è sua». Nelle due citazioni sopra riportate, con la perfetta inclusione di «otto anni fa» e di «otto anni dopo», si distende l’arco della coscienza della debolezza degli inizi e della confidenza assoluta che la barca della Chiesa è del Signore, «è sua, non è mia, non è nostra»! Vorrei contrappuntare le espressioni d’incantevole bellezza che sono contenute in questo testo: «il Signore ci ha donato tanti giorni di sole e di brezza leggera, giorni in cui la pesca è stata abbondante» e insieme «vi sono stati anche momenti in cui le acque erano agitate ed il vento contrario … e il Signore sembrava dormire». S’intrecciano nel testo il mattino della creazione con la luce solare e la brezza del vento leggero dove si sente la mano carezzevole di Dio e il turbine tempestoso dei giorni caliginosi dell’intrigo e della sporcizia, dove si deve passare attraverso il varco della passione. Nel flusso della mia memoria le immagini si sovrappongono come in dissolvenza: Paolo VI sulla dura pietra della chiesa del Primato che medita sulla debolezza di Pietro che deve condurre in porto il Concilio; Benedetto XVI nel caloroso abbraccio ammutolito della folla nella piazza di san Pietro che testimonia che la barca non è sua, non è nostra, ma è di Gesù. E che ci mostra la forza della debolezza, quando sia costruita sulla pietra angolare di Cristo.
Qui mi viene alla mente un’espressione folgorante della Prima lettera di Pietro: «Avvicinandovi a Lui, pietra viva, rifiutata dagli uomini ma scelta e preziosa davanti a Dio, quali pietre vive siete costruiti anche voi come edificio spirituale, per un sacerdozio santo e per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, mediante Gesù Cristo» (1Pt 2,4-5). Osserviamo lo stupendo effetto che si crea con questa espressione. È Pietro che parla – non importa che la lettera sia dell’Apostolo o della tradizione petrina, ma l’effetto performativo è lo stesso: l’Autore che impersona l’Apostolo Pietro ci dice di stringerci a Cristo «pietra viva, rifiutata dagli uomini, ma scelta e preziosa davanti a Dio». Pietro che è la roccia della Chiesa afferma che essa è l’edificio costruito nell’abbraccio a Cristo, «pietra viva», nel contrasto tra il rifiuto degli uomini e la sua solidità preziosa guardata con gli occhi di Dio. È forse l’attestazione più bella di questi anni di pontificato di Benedetto XVI, che nella fatica inesausta del suo ministero ha voluto dare una luminosa attestazione del volto di Cristo nei suoi tre volumi su Gesù di Nazareth. Una trilogia inusuale durante un pontificato, quando un papa, accanto al Magistero solenne e ordinario, scrive per così dire in forma testimoniale la sua fede che racconta l’abbraccio a Cristo pietra viva che sorregge la Chiesa e il credente. È bello raccoglierla nella confidente confessione che si trova nell’ultima catechesi del papa: «Vorrei invitare tutti a rinnovare la ferma fiducia nel Signore, ad affidarci come bambini nelle braccia di Dio, certi che quelle braccia ci sostengono sempre e sono ciò che ci permette di camminare ogni giorno, anche nella fatica. Vorrei che ognuno si sentisse amato da quel Dio che ha donato il suo Figlio per noi e che ci ha mostrato il suo amore senza confini. Vorrei che ognuno sentisse la gioia di essere cristiano. In una bella preghiera da recitarsi quotidianamente al mattino si dice: “Ti adoro, mio Dio, e ti amo con tutto il cuore. Ti ringrazio di avermi creato, fatto cristiano …”. Sì, siamo contenti per il dono della fede; è il bene più prezioso, che nessuno ci può togliere! Ringraziamo il Signore di questo ogni giorno, con la preghiera e con una vita cristiana coerente. Dio ci ama, ma attende che anche noi lo amiamo!». Limpida professione di fede con cui il papa teologo ci fa gustare la dolcezza della fede dei semplici. Perché a questo serve la grande teologia: a preservare e custodire il roveto ardente della fede semplice della Chiesa. Senza sconti, ma anche senza sovrastrutture.
E continua il testo dell’Apostolo: «quali pietre vive siete costruiti (il testo originale dice ‘edificati’) anche voi come edificio spirituale …». La pietra è materiale inerte e amorfo e, quando si cava dalla roccia, ha bisogno di essere sagomata, smussata, incastrata, cementata con altre pietre, per costruire l’edificio che è la grande cattedrale della Chiesa. L’ossimoro «pietre vive» sulla bocca di Pietro, l’Apostolo della prima ora (e nella costante ripresa dei successori di Pietro) mantiene viva la coscienza di quanto è dura la fatica per costruire l’edificio spirituale, il sacerdozio santo, capace di offrire sacrifici graditi a Dio. Il papa non lo nasconde anche nell’ora del commiato, anzi lo lascia e lo lancia come sfida per la Chiesa a venire. Occorre costruire una Chiesa di ‘pietre vive’, una Chiesa viva, capace di essere generativa, non solo misericordiosa, ma in grado di generare una ‘speranza viva’ che innalzi un edificio tale da divenire polo d’attrazione nella città degli uomini, come sono state le grandi cattedrali che ingemmano l’Occidente cristiano. Anzi il papa è stato anche generoso nel suo saluto: riconoscendo che non «si è mai sentito solo» e ringraziando
con vera magnanimità di cuore e senza infingimenti i suoi collaboratori.
Mi fermo a questo punto del mio scritto pochi minuti prima di mezzogiorno del 13 marzo. Mi chiamano e vedo uscire la seconda fumata nera del primo giorno del conclave, dopo tre scrutini. Sospendo la scrittura del testo attendendo gli eventi. A sera, alle 19.06, finalmente
la fumata bianca e alle 20.10 l’annuncio che il nuovo vescovo di Roma è Papa Francesco. Sì, il nuovo «Vescovo di Roma», dice insistentemente Jorge Mario Bergoglio alla piazza gremita che ha atteso per ore sotto la pioggia. E il Vescovo di Roma, salutando Benedetto XVI, Vescovo emerito di Roma, si rivolge alla sua città, e attraverso la singolarità di quella Chiesa dice che ha il compito di favorire la comunione universale delle Chiese diffuse sulla faccia della terra. E non solo delle Chiese, ma di tutti gli uomini. Il momento più emozionante, però, deve ancora venire … Prima di impartire la benedizione alla sua città e a tutto il mondo, stupefatto dal triplice primato del primo papa latinoamericano, gesuita e con il nome mai prima scelto di Francesco, chiede un gesto insolito. Invoca un momento di preghiera (32 secondi contati) perché il suo popolo preghi – in un silenzio veramente impressionante – per invocare la benedizione sul suo nuovo Vescovo («vi chiedo che preghiate il Signore perché mi benedica: la preghiera del popolo, chiedendo la benedizione per il suo vescovo»). Prima di invocare anche lui la benedizione del Signore su quella sterminata folla e sui milioni di persone collegate con gli antichi e nuovi mezzi della comunicazione sociale, papa Francesco ha detto con la forza del gesto che tutti dobbiamo diventare grembo che accoglie Dio che ci benedice. E che benedice la sua Chiesa per i giorni a venire su tutta la faccia della terra. Il lunedì della settimana precedente sono stato a Roma, perché dovevo essere ricevuto con i vescovi piemontesi da Benedetto XVI nella visita ad limina. Era già Sede vacante e la visita venne sospesa, ma sono andato ugualmente in san Pietro e ho pregato sulle tombe di tre papi, Giovanni XXIII, Giovanni Paolo II, nella Basilica, e sulla tomba di Paolo VI nella Grotte vaticane, chiedendo allo Spirito il dono di un papa che unificasse in un’unica icona le tessere di queste tre figure. Ne è venuto, contro ogni previsione, papa Francesco!