"VI ERA CON LORO ANCHE GIUDA, IL TRADITORE"

predica del Venerdì Santo di padre Raniero Cantalamessa

18 Aprile 2014

 

 

Dentro la storia divino-umana della passione di Gesù ci sono tante piccole storie di uomini e di donne entrati nel raggio della sua luce o della sua ombra. La più tragica di esse è quella di Giuda Iscariota. È uno dei pochi fatti attestati, con uguale rilievo, da tutti e quattro i vangeli e dal resto del Nuovo Testamento. La primitiva comunità cristiana ha molto riflettuto sulla vicenda e noi faremmo male a non fare altrettanto. Essa ha tanto da dirci.

 

Giuda fu scelto fin dalla prima ora per essere uno dei dodici. Nell’inserire il suo nome nella lista degli apostoli l’evangelista Luca scrive “Giuda Iscariota che divenne” (egeneto) il traditore” (Lc 6, 16). Dunque Giuda non era nato traditore e non lo era al momento di essere scelto da Gesù; lo divenne! Siamo davanti a uno dei drammi più foschi della libertà umana.

 

Perché lo divenne? In anni non lontani, quando era di moda la tesi del Gesù “rivoluzionario”, si è cercato di dare al suo gesto delle motivazioni ideali. Qualcuno ha visto nel suo soprannome di “Iscariota” una deformazione di “sicariota”, cioè appartenente al gruppo  di zeloti estremisti che agivano da “sicari” contro i romani; altri hanno pensato che Giuda fosse deluso dal modo con cui Gesù portava avanti la sua idea del “regno di  Dio” e che volesse forzargli la mano ad agire anche sul piano politico contro i pagani. È il Giuda del celebre musical “Jesus Christ Superstar”e di altri spettacoli e romanzi recenti. Un Giuda che si avvicina a un altro celebre traditore del proprio benefattore: Bruto che uccise Giulio Cesare per salvare la Repubblica!

 

Sono ricostruzioni da rispettare quando rivestono qualche dignità letteraria o artistica, ma non hanno alcun fondamento storico. I vangeli – le uniche fonti attendibili che abbiamo sul personaggio – parlano di un motivo molto più terra-terra: il denaro. A Giuda era stata affidata la borsa comune del gruppo; in occasione dell’unzione di Betania aveva protestato contro lo spreco del profumo prezioso versato da Maria sui piedi di Gesù, non perché gli importasse dei poveri, fa notare Giovanni, ma perché “era un ladro e, siccome teneva la cassa, prendeva quello che vi mettevano dentro” (Gv 12,6). La sua proposta ai capi dei sacerdoti è esplicita: “Quanto siete disposti a darmi, se io ve lo consegno? Ed essi gli fissarono trenta sicli d'argento” (Mt 26, 15).

 

Ma perché meravigliarsi di questa spiegazione e trovarla troppo banale? Non è stato forse quasi sempre così nella storia e non è ancora oggi così? Mammona, il denaro, non è uno dei tanti idoli; è l’idolo per antonomasia; letteralmente, “l’idolo di metallo fuso” (cf. Es 34, 17). E si capisce il perché. Chi è, oggettivamente, se non soggettivamente (cioè nei fatti, non nelle intenzioni), il vero nemico, il concorrente di Dio, in questo mondo? Satana? Ma nessun uomo decide di servire, senza motivo, Satana. Se lo fa, è perché crede di ottenere da lui qualche potere o qualche beneficio temporale. Chi è, nei fatti, l’altro padrone, l’anti-Dio, ce lo dice chiaramente Gesù: “Nessuno può servire a due padroni: non potete servire a Dio e a Mammona” (Mt 6, 24). Il denaro è il “dio visibile”[1], a differenza del  Dio vero che è invisibile.

 

Mammona è l’anti-dio perché crea un universo spirituale alternativo, cambia oggetto alle virtù teologali. Fede, speranza e carità non vengono più riposte in Dio, ma nel denaro. Si attua una sinistra inversione di tutti i valori. “Tutto è possibile a chi crede”, dice la Scrittura (Mc 9, 23); ma il mondo dice: “Tutto è possibile a chi ha  il denaro”. E, a un certo livello, tutti i fatti sembrano dargli ragione.

 

“L’attaccamento al denaro -dice la Scrittura- è la radice di tutti i mali” (1 Tm 6,10). Dietro ogni male della nostra società c’è il denaro, o almeno c’è anche il denaro. Esso è il Moloch di biblica memoria, a cui venivano immolati giovani e fanciulle (cf. Ger 32, 35), o il dio Azteco, cui bisognava offrire quotidianamente  un certo numero di cuori umani. Cosa c’è dietro il commercio della droga che distrugge tante vite umane, lo sfruttamento della prostituzione, il fenomeno delle varie mafie, la corruzione politica, la fabbricazione e il commercio delle armi, e perfino – cosa orribile a dirsi – alla vendita di organi umani tolti a dei bambini? E la crisi finanziaria che il mondo ha attraversato e che questo paese sta ancora attraversando, non è dovuta in buona parte all’”esecranda bramosia di denaro”, l’auri sacra fames,[2]da parte di alcuni pochi? Giuda cominciò con sottrarre qualche denaro dalla cassa comune. Dice niente questo  a certi amministratori del denaro pubblico?

 

Ma senza pensare a questi modi criminali di accumulare denaro, non è già scandaloso che alcuni percepiscano stipendi e pensioni cento volte superiori a quelli di chi lavora alle loro dipendenze e che alzino la voce appena si profila l’eventualità di dover rinunciare a qualcosa, in vista di una maggiore giustizia sociale?

 

Negli anni ’70 e ‘80, per spiegare, in Italia, gli improvvisi rovesciamenti politici, i giochi occulti di potere, il terrorismo e i misteri di ogni genere da cui era afflitta la convivenza civile, si andò affermando l’idea, quasi mitica, dell’esistenza di un “grande Vecchio”: un personaggio scaltrissimo e potente che da dietro le quinte avrebbe mosso le fila di tutto, per fini a lui solo noti. Questo “grande Vecchio” esiste davvero, non è un mito; si chiama Denaro!

 

Come tutti gli idoli, il denaro è “falso e bugiardo”: promette la sicurezza e invece la toglie; promette libertà e invece la distrugge. San Francesco d’Assisi descrive, con una severità insolita, la fine di una persona vissuta solo per aumentare il suo “capitale”. Si avvicina la morte; si fa venire il sacerdote. Questi chiede al moribondo: “Vuoi il perdono di tutti i tuoi peccati?”, e lui risponde di sì. E il sacerdote: “Sei pronto a soddisfare ai torti commessi, restituendo le cose che hai frodato ad altri?”. Ed egli: “Non posso”. “Perché non puoi?”. “Perché ho già lasciato tutto nelle mani dei miei parenti e amici”. E così egli muore impenitente e appena morto i parenti e gli amici dicono tra loro: “Maledetta l’anima sua! Poteva guadagnare di più e lasciarcelo, e non l’ha fatto!”[3].

 

Quante volte, di questi tempi, abbiamo dovuto ripensare a quel grido rivolto da Gesù al ricco della parabola che aveva ammassato beni a non finire e si sentiva al sicuro per il resto della vita: "Stolto, questa notte stessa l'anima tua ti sarà ridomandata; e quello che hai preparato, di chi sarà?" (Lc 12,20)!”. Uomini collocati in posti di responsabilità che non sapevano più in quale banca o paradiso fiscale ammassare i  proventi della loro corruzione si sono ritrovati sul banco degli imputati, o nella  cella di una prigione, proprio quando stavano per dire a se stessi: “Ora godi, anima mia”. Per chi l’hanno fatto? Ne valeva la pena? Hanno fatto davvero il bene dei figli e della famiglia, o del partito, se è questo che cercavano? O non hanno piuttosto rovinato se stessi e gli altri? Il  dio denaro si incarica di punire lui stesso i suoi adoratori.

 

Il tradimento di Giuda continua nella storia e il tradito è sempre lui, Gesù. Giuda vendette il capo, i suoi seguaci vendono il suo corpo, perché i poveri sono membra di Cristo. “Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25, 40). Ma il tradimento di Giuda non continua solo ne casi clamorosi che ho evocato. Sarebbe comodo per noi pensarlo, ma non è così. È rimasta famosa l’omelia che tenne un Giovedì Santo don Primo Mazzolari su “Nostro fratello Giuda”. “Lasciate, diceva ai pochi parrocchiani che aveva davanti, che io pensi per un momento al Giuda che ho dentro di me, al Giuda che forse anche voi avete dentro”.

 

Si può tradire Gesù anche per altri generi di ricompensa che non siano i trenta denari. Tradisce Cristo chi tradisce la propria moglie o il proprio marito. Tradisce Gesù il ministro di  Dio infedele al suo stato, o che invece di pascere il gregge pasce se stesso. Tradisce Gesù chiunque tradisce la propria coscienza. Posso tradirlo anch’io, in questo momento – e la cosa mi fa tremare – se mentre predico su Giuda mi preoccupo dell’approvazione dell’uditorio più che di partecipare all’immensa pena del Salvatore. Giuda aveva un’attenuante che noi non abbiamo. Egli non sapeva chi era Gesù, lo riteneva solo “un uomo giusto”; non sapeva che era il Figlio di Dio, noi sì.

 

Come ogni anno, nell’imminenza della Pasqua, ho voluto riascoltare la “Passione secondo S. Matteo” di Bach. C’è un dettaglio che ogni volta mi fa trasalire. All’annuncio del tradimento di Giuda, lì tutti gli apostoli domandano a Gesù: “Sono forse io, Signore?” “Herr, bin ich’s?”. Prima però di farci ascoltare la risposta di Cristo, annullando ogni distanza tra l’evento e la sua commemorazione, il compositore inserisce un corale che inizia così: “Sono io, sono io il traditore! Io devo fare penitenza!”, “Ich bin’s, ich sollte büßen”[4]. Come tutti i corali di quell’opera, esso esprime i sentimenti del popolo che ascolta; è un invito a fare anche noi la nostra confessione di peccato.

 

Il vangelo descrive la fine orrenda di Giuda: “Giuda, che l'aveva tradito, vedendo che Gesù era stato condannato, si pentì, e riportò i trenta sicli d'argento ai capi dei sacerdoti e agli anziani,  dicendo: Ho peccato, consegnandovi sangue innocente. Ma essi dissero: Che c'importa? Pensaci tu.  Ed egli, buttati i sicli nel tempio, si allontanò e andò a impiccarsi” (Mt 27, 3-5). Ma non diamo un giudizio affrettato. Gesù non ha mai abbandonato Giuda e nessuno sa dove egli è caduto nel momento in cui si è lanciato dall’albero con la corda al collo: se nelle mani di Satana o in quelle di  Dio. Chi può dire cosa è passato nella sua anima in quegli ultimi istanti? “Amico”, era stata l’ultima parola rivoltagli da Gesù nell’orto ed egli non poteva averla dimenticata, come non poteva aver dimenticato il suo sguardo.

 

È vero che, parlando al Padre di suoi discepoli, Gesù aveva detto di Giuda: “Nessuno di loro è andato perduto, tranne il figlio della perdizione” (Gv 17, 12), ma qui, come in tanti altri casi, egli parla nella prospettiva del tempo non dell’eternità. Anche l’altra parola tremenda detta di Giuda: “Meglio sarebbe per quell’uomo se non fosse mai nato” (Mc 14, 21) si spiega con l’enormità del fatto, senza bisogno di pensare a un fallimento eterno. Il destino eterno della creatura è un segreto inviolabile di  Dio. La Chiesa ci assicura che un uomo o una donna proclamati santi sono nella beatitudine eterna; ma di nessuno essa stessa sa che è certamente all’inferno.

 

Dante Alighieri, che, nella Divina Commedia, colloca Giuda nel profondo dell’inferno, narra della conversione all’ultimo istante di Manfredi, figlio di Federico II e re di Sicilia, che tutti a suo tempo ritenevano dannato perché morto scomunicato. Ferito a morte in battaglia, egli confida al poeta che, nell’ultimo istante di vita, si arrese piangendo a colui “che volentier perdona” e dal Purgatorio manda sulla terra questo messaggio che vale anche per noi:

Orribil furon li peccati miei;

ma la bontà infinita ha sì gran braccia,

che prende ciò che si rivolge a lei[5].

 

Ecco a cosa deve spingerci la storia del nostro fratello Giuda: ad arrenderci a colui che volentieri perdona, a gettarci anche noi tra le braccia aperte del crocifisso. La cosa più grande nella vicenda di Giuda non è il suo tradimento, ma la risposta che Gesù da ad esso. Egli sapeva bene cosa stava maturando nel cuore del suo discepolo; ma non lo espone, vuole dargli la possibilità fino all’ultimo di tornare indietro, quasi lo protegge. Sa perché è venuto, ma non rifiuta, nell’orto degli ulivi, il suo bacio di gelo e anzi lo chiama amico (Mt 26, 50). Come cercò il volto di Pietro dopo il rinnegamento per dargli il suo perdono, chissà come avrà cercato anche quello di Giuda in qualche svolta della sua via crucis! Quando dalla croce prega: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno” (Lc 23, 34), non esclude certamente da essi Giuda.

 

Che faremo dunque noi? Chi seguiremo, Giuda o Pietro? Pietro ebbe rimorso di quello che aveva fatto, ma anche Giuda ebbe rimorso, tanto che gridò: «Ho tradito sangue innocente!» e restituì i trenta denari. Dov’è allora la differenza? In una cosa sola: Pietro ebbe fiducia nella misericordia di Cristo, Giuda no! Il più grande peccato di Giuda non fu aver tradito Gesù, ma aver dubitato della sua misericordia.

Se lo abbiamo imitato, chi più chi meno, nel tradimento, non lo imitiamo in questa sua mancanza di fiducia nel perdono. Esiste un sacramento nel quale è possibile fare una esperienza sicura della misericordia di Cristo: il sacramento della riconciliazione. Quanto è bello questo sacramento! È dolce sperimentare Gesù come maestro, come Signore, ma ancora più dolce sperimentarlo come Redentore: come colui che ti tira fuori dal baratro, come Pietro dal mare, che ti tocca, come fece con il lebbroso, e ti dice: “Lo voglio, sii guarito!” (Mt 8,3). 

 

La confessione ci permette di sperimentare su di noi quello che la Chiesa dice del peccato di Adamo nell’Exultet pasquale: “O felice colpa che ci ha meritato un tale Redentore!”. Gesù sa fare di tutte le colpe umane, una volta che ci siamo pentiti, delle “felici colpe”, delle colpe che non si ricordano più se non per l’esperienza di misericordia e di tenerezza divina di cui sono state occasione!

 

Ho un augurio da fare a me e a tutti voi,  Venerabili Padri, fratelli e sorelle: che il mattino di Pasqua possiamo destarci e sentire risuonare nel nostro cuore le parole di un grande convertito del nostro tempo, il poeta e drammaturgo Paul Claudel:

“Mio  Dio, sono risuscitato e sono ancora con Te!

Dormivo ed ero steso come un morto nella notte.

Hai detto: “Sia la luce! E io mi sono svegliato come si getta un grido! […]

Padre mio che mi hai generato prima dell’Aurora, sono alla tua presenza.

Il mio cuore è libero e la bocca mondata, corpo e spirito sono a digiuno.

Sono assolto di tutti i peccati, che ho confessati uno ad uno.

L’anello nuziale è al mio dito e il mio volto è pulito.

Sono come un essere innocente nella grazia che mi hai concessa”[6].

 

 

Questo può fare di noi la Pasqua di Cristo.


 

SANT'AGOSTINO: CREDO LA CHIESA UNA E SANTA

 

seconda predica di p. Raniero Cantalemessa alla Curia romana

 

21 marzo 2014

 

[Il testo che ci è pervenuto non ha le indicazioni delle note]

1. Dall’Oriente all’Occidente

 

Nella meditazione introduttiva della settimana scorsa abbiamo riflettuto sul senso della Quaresima come un tempo nel quale andare con Gesú nel deserto, digiunare dai cibi, dalle parole e dalle immagini, imparare a vincere le tentazioni e soprattutto crescere nell’intimità con Dio.

 

Nelle quattro prediche che ci restano, proseguendo la riflessione iniziata nella Quaresima del 2012 con i Padri greci, ci mettiamo alla scuola di quattro grandi dottori della Chiesa latina – Agostino, Ambrogio, Leone Magno e Gregorio Magno – per vedere cosa ognuno di essi dice a noi oggi, a proposito della verità di fede di cui è stato particolare assertore e cioè, rispettivamente, la natura della Chiesa, la presenza reale di Cristo nell’Eucaristia, il dogma cristologico di Calcedonia e la l’intelligenza spirituale delle Scritture.

 

Lo scopo è riscoprire, dietro questi grandi Padri, la ricchezza, la bellezza e la felicità del credere, passare, come dice Paolo, “di fede in fede” (Rom 1,17), da una fede creduta a una fede vissuta. Sarà proprio un accresciuto “volume” di fede all’interno della Chiesa a costituire poi la forza maggiore nell’annuncio di essa al mondo.

 

Il titolo del ciclo è desunto da un pensiero caro ai teologi medievali: “Noi –diceva Giovanni di Salisbury – siamo come nani che siedono sulle spalle dei giganti, di modo che possiamo vedere più cose e più lontano di loro, non per l’acutezza del nostro sguardo o con l’altezza del corpo, ma perché siamo portati più in alto e siamo sollevati da loro ad altezza gigantesca” . Questo pensiero ha trovato espressione artistica in certe statue e vetrate delle cattedrali gotiche del medio evo, in cui sono rappresentati personaggi dalla statura imponente che reggono, seduti sulle spalle, uomini piccoli, quasi dei nani. I giganti erano per essi, come sono per noi, i Padri della Chiesa.

 

Dopo le lezioni di Atanasio, di Basilio di Cesarea, di Gregorio Nazianzeno e di Gregorio Nisseno, rispettivamente sulla divinità di Cristo, sullo Spirito Santo, sulla Trinità e sulla conoscenza di Dio, si poteva avere l’impressione che ben poco restasse da fare ai Padri latini nell’edificazione del dogma cristiano. Uno sguardo sommario alla storia della teologia ci convince subito del contrario.

 

 Spinti dalla cultura di cui facevano parte, favoriti dalla loro forte tempra speculativa e condizionati dalle eresie che erano costretti a combattere (arianesimo, apollinarismo, nestorianesimo, monofisismo), i Padri greci si erano concentrati principalmente sugli aspetti ontologici del dogma: la divinità di Cristo, le sue due nature e il modo della loro unione, l’unità e la trinità di Dio. I temi più cari a Paolo – la giustificazione, il rapporto legge – vangelo, la chiesa corpo di Cristo – erano rimasti ai margini della loro attenzione, o trattati en passant. Al loro scopo rispondeva assai meglio Giovanni con la sua enfasi sull’incarnazione che non Paolo che pone al centro di tutto il mistero pasquale, cioè l’agire, più che l’essere di Cristo.

 

 L’indole dei latini più incline (a parte Agostino) a occuparsi di problemi concreti, giuridici e organizzativi, che di quelli speculativi, unita all’apparire di nuove eresie, come il donatismo e il pelagianesimo, stimoleranno una riflessione nuova e originale sui temi paolini della grazia, della Chiesa, dei sacramenti e della Scrittura. Sono i tempi sui quali vorremmo riflettere nella presente predicazione quaresimale.

 

2. Cos’è la Chiesa?

 

Iniziamo la nostra rassegna dal più grande dei padri latini, Agostino. Il dottore di Ippona ha lasciato la sua impronta in quasi tutti gli ambiti della teologia, ma soprattutto in due di essi: quello della grazia e quello della Chiesa; il primo, frutto della sua lotta contro il pelagianesimo, il secondo, della sua lotta contro il donatismo.

 

 L’interesse per la dottrina di Agostino sulla grazia ha prevalso, dal secolo XVI in poi, sia in ambito protestante (a lui si riallacciano Lutero con la dottrina della giustificazione e Calvino con quella della predestinazione), sia in campo cattolico a causa delle controversie suscitate da Giansenio e Baio . L’interesse per le sue dottrine ecclesiali è invece prevalente ai nostri giorni, a causa del Concilio Vaticano II che ha fatto della Chiesa il suo tema centrale, e a causa del movimento ecumenico nel quale l’idea di Chiesa è il nodo cruciale da sciogliere. Cercando nei Padri aiuto e ispirazione per l’oggi della fede, noi ci occuperemo di questo secondo ambito di interesse di Agostino che è la Chiesa.

 

La Chiesa non era stato un tema sconosciuto ai Padri greci e agli scrittori latini anteriori ad Agostino (Cipriano, Ilario, Ambrogio), ma le loro affermazioni si limitavano per lo più a ripetere e commentare affermazioni e immagini della Scrittura. La Chiesa è il nuovo popolo di Dio che ha preso il posto della sinagoga; ad essa è promessa l’indefettibilità; è “la colonna e la base della verità”; lo Spirito Santo è il suo supremo maestro; la Chiesa è “cattolica” perché si estende a tutti i popoli, insegna tutti i dogmi e possiede tutti i carismi; sulla scia di Paolo, si parla della Chiesa come del mistero della nostra incorporazione a Cristo mediante il battesimo e il dono dello Spirito Santo; essa è nata dal fianco squarciato di Cristo sulla croce, come Eva dal fianco di Adamo dormente .

 

 Tutto questo però era detto occasionalmente; la Chiesa non è ancora messa a tema. Chi sarà costretto a farlo è appunto Agostino che per quasi tutta la sua vita dovette lottare contro lo scisma dei donatisti. Nessuno forse oggi si ricorderebbe di questa setta nordafricana, se non fosse per il fatto che essa è stata l’occasione da cui è nata quella che oggi chiamiamo l’ecclesiologia, cioè un discorso riflesso su cos’è la Chiesa nel disegno di Dio, la sua natura e il suo funzionamento.

 

Intorno al 311, un certo Donato, vescovo della Numidia si rifiutò di riaccogliere nella comunione ecclesiale coloro che durante la persecuzione di Diocleziano avevano consegnato i Libri Sacri alle autorità statali, rinnegando la fede per aver salva la vita. Nel 311 fu eletto vescovo di Cartagine un certo Ceciliano, accusato (secondo i cattolici, a torto) di aver tradito la fede durante la persecuzione di Diocleziano. Contro questa nomina si oppose un gruppo di settanta vescovi nord africani, guidati da Donato. Essi destituirono Ceciliano ed elessero al suo posto Donato. Scomunicato da Papa Milziade nel 313, questi rimase al suo posto, innescando uno scisma, che creò in Nord Africa una Chiesa parallela a quella cattolica fino all’invasione dei Vandali avvenuta un secolo dopo.

 

Nel corso della polemica, essi avevano cercato di giustificare la loro posizione con argomenti teologici ed è nella confutazione di essi che Agostino viene elaborando, a poco a poco, la sua dottrina della Chiesa. Questo avviene in due contesti diversi: nelle opere scritte direttamente contro i donatisti e nei suoi commentari alla Scrittura e discorsi al popolo. È importante distinguere questi due contesti, perché a seconda di essi, Agostino insisterà più su alcuni anziché su altri aspetti della Chiesa e solo dall’insieme si può ricavare la sua dottrina completa. Vediamo dunque, sempre per sommi capi, quali sono le conclusioni a cui il santo giunge in ognuno dei due contesti, cominciando da quello direttamente antidonatista.

 

 a. La Chiesa, comunione dei sacramenti e società dei santi. Lo scisma donatista era partito da una convinzione: non può trasmettere la grazia un ministro che non la possiede; i sacramenti amministrati in questo modo sono dunque privi di qualsiasi effetto. Questo argomento applicato, all’inizio, all’ordinazione del vescovo Ceciliano, viene presto esteso agli altri sacramenti e in particolare al battesimo. Con esso i donatisti giustificano la loro separazione dai cattolici e la pratica di ribattezzare chi veniva dai loro ranghi.

 

In risposta, Agostino elabora un principio che diventerà una conquista per sempre della teologia e crea le basi del futuro trattato De sacramentis: la distinzione tra potestas e ministerium, cioè tra la causa della grazia e il suo ministro. La grazia conferita dai sacramenti è opera esclusiva di Dio e di Cristo; il ministro non è che uno strumento: “Pietro battezza, è Cristo che battezza; Giovanni battezza, è Cristo che battezza; Giuda battezza, è Cristo che battezza” . La validità e l’efficacia dei sacramenti non è impedita dal ministro indegno: una verità di cui, si sa, quanto il popolo cristiano ha bisogno anche oggi di ricordarsi…

 

Neutralizzata, in tal modo, l’arma principale degli avversari, Agostino può elaborare la sua grandiosa visione della Chiesa, mediante alcune fondamentali distinzioni. La prima è quella tra Chiesa presente o terrestre, e Chiesa futura o celeste. Solo questa seconda sarà una Chiesa di tutti e soli santi; la Chiesa del tempo presente sarà sempre il campo in cui sono frammisti grano e zizzania, la rete che raccoglie pesci buoni e pesci cattivi, cioè santi e peccatori.

 

 All’interno della Chiesa nel suo stadio terreno, Agostino opera un’altra distinzione, quella tra la comunione dei sacramenti (communio sacramentorum) e la società dei santi (societas sanctorum). La prima unisce tra loro visibilmente tutti quelli che partecipano degli stessi segni esterni: i sacramenti, le Scritture, l’autorità; la seconda unisce tra loro tutti e solo quelli che, oltre i segni, hanno in comune anche la realtà nascosta nei segni (la res sacramentorum) e cioè lo spirito Santo, la grazia, la carità.

 

 Siccome quaggiù sarà sempre impossibile sapere con certezza chi possiede lo Spirito Santo e la grazia –e ancor più se persevererà fino alla fine in tale stato –, Agostino finisce per identificare la vera e definitiva comunità dei santi con la Chiesa celeste dei predestinati. “Quante pecore che oggi sono dentro, saranno fuori, e quanti lupi che ora sono fuori, allora saranno dentro”!

 

 La novità, su questo punto, anche rispetto a Cipriano, è che mentre questi faceva consistere l’unità della Chiesa in qualcosa di esteriore e visibile –la concordia di tutti vescovi tra di loro – Agostino la fa consistere in qualcosa di interiore: lo Spirito Santo. L’unità della Chiesa è operata così dallo stesso che opera l’unità nella Trinità. “Il Padre e il Figlio hanno voluto che noi fossimo uniti tra noi e con loro, per mezzo di quello stesso vincolo che unisce loro, e cioè l’amore che è lo Spirito Santo . Egli svolge nella Chiesa la stessa funzione che esercita l’anima nel nostro corpo naturale: ne è cioè il principio animatore e unificatore. “Ciò che l’anima è per il corpo umano, lo Spirito Santo lo è per il corpo di Cristo che è la Chiesa” .

 

 L’appartenenza piena alla Chiesa esige le due cose insieme, e la comunione visibile dei segni sacramentali e la comunione invisibile della grazia. Essa però ammette dei gradi, per cui non è detto che si debba essere per forza o dentro o fuori. Si può essere in parte dentro e in parte fuori. C’è una appartenenza esteriore, o dei segni sacramentali, nella quale si situano gli scismatici donatisti e gli stessi cattivi cattolici e una comunione piena e totale. La prima consiste nell’avere il segno esteriore della grazia (sacramentum), senza però ricevere la realtà interiore prodotta da essi (res sacramenti), o nel riceverla, ma per la propria condanna, non per la propria salvezza, come nel caso del battesimo amministrato dagli scismatici o dell’Eucaristia ricevuta indegnamente dai cattolici.

 

 b. La Chiesa corpo di Cristo animato dallo Spirito Santo. Negli scritti esegetici e nei discorsi al popolo ritroviamo questi stessi principi basilari della ecclesiologia; ma meno pressato dalla polemica e parlando, per così dire, in famiglia, Agostino può insistere di più su aspetti interiori e spirituali della Chiesa che gli stanno più a cuore. In essi la Chiesa è presentata, con toni spesso elevati e commossi, come il corpo di Cristo (manca ancora l’aggettivo mistico che sarà aggiunto in seguito), animato dallo Spirito Santo, a tal punto affine al corpo eucaristico da combaciare a tratti quasi totalmente con esso. Ascoltiamo ciò che ascoltarono, in una festa di Pentecoste, i suoi fedeli su questo tema: “Se vuoi comprendere il corpo di Cristo, ascolta l’Apostolo che dice ai fedeli: Voi siete il corpo di Cristo e sue membra (1 Cor 12,27). Se voi dunque siete il corpo e le membra di Cristo, sulla mensa del Signore è deposto il mistero di voi: ricevete il vostro mistero. A ciò che siete rispondete: Amen e rispondendo lo sottoscrivete. Ti si dice infatti: Il corpo di Cristo, e tu rispondi : Amen. Sii membro del corpo di Cristo, perché sia veritiero il tuo Amen…Siate ciò che vedete e ricevete ciò che siete” .

 

Il nesso tra i due corpi di Cristo si fonda per Agostino sulla singolare corrispondenza simbolica tra il divenire dell’uno e il formarsi dell’altra. Il pane dell’Eucaristia è ottenuto dall’impasto di più chicchi di grano e il vino da una moltitudine di acini di uva, così la Chiesa è formata da più persone, riunite e amalgamate insieme dalla carità che è lo Spirito Santo . Come il grano sparso sui colli è stato dapprima raccolto, poi macinato, impastato in acqua e cotto al forno, così i fedeli sparsi per il mondo sono stati riuniti dalla parola di Dio, macinati dalle penitenze e gli esorcismi che precedono il battesimo, immersi nell’acqua del battesimo e passati al fuoco dello Spirito. Anche nei riguardi della Chiesa si deve dire che il sacramento “significando causat”: significando l’unione di più persone in una, l’Eucaristia la realizza, la causa. In questo senso, si può dire che “l’Eucaristia fa la Chiesa”.

 

 3. Attualità della ecclesiologia di Agostino

 

Cerchiamo ora di vedere come le idee di Agostino sulla Chiesa possono contribuire a illuminare i problemi che essa si trova ad affrontare nel nostro tempo. Vorrei soffermarmi in particolare sulla importanza dell’ecclesiologia di Agostino per il dialogo ecumenico. Una circostanza rende questa scelta particolarmente attuale. Il mondo cristiano si sta preparando a celebrare il quinto centenario della Riforma protestante. Già cominciano a circolare dichiarazioni e documenti congiunti in vista dell’evento . È vitale per tutta la Chiesa che non si sciupi questa occasione, rimanendo prigionieri del passato, cercando di appurare, magari con maggiore obbiettività e irenismo del passato, le ragioni e le colpe degli uni e degli altri, ma che si faccia un salto di qualità, come avviene nella “chiusa” di un fiume o di un canale, che permette poi alle navi di proseguire la loro navigazione a un livello più alto.

 

La situazione del mondo, della Chiesa e della teologia è cambiata rispetto ad allora. Si tratta di ripartire dalla persona di Gesù, di aiutare umilmente i nostri contemporanei a scoprire la persona di Cristo. Dobbiamo rifarci al tempo degli apostoli. Essi avevano davanti un mondo precristiano, noi abbiamo davanti un mondo in gran parte post-cristiano. Quando Paolo vuole riassume in una frase l’essenza del messaggio cristiano non dice: “Vi annunciamo questa o quella dottrina”; dice: “Noi annunciamo Cristo e Cristo crocifisso” (1 Cor 1 23) e ancora: “Noi annunciamo Cristo Gesù Signore” (cf. 2 Cor 4,5).

 

Questo non significa ignorare il grande arricchimento teologico e spirituale prodotto dalla Riforma, o voler tornare al punto di prima; significa piuttosto permettere a tutta la cristianità di beneficiare delle sue conquiste, una volta liberate da certe forzature dovute al clima acceso del momento e alle successive polemiche. La giustificazione gratuita mediante la fede, per esempio, andrebbe predicata oggi –e con più forza che mai – , non però in opposizione alle buone opere che è questione superata, ma in opposizione alla pretesa dell’uomo moderno di salvarsi da solo, senza bisogno né di Dio né di Cristo.

 

Vediamo come la teologia di Agostino ci può aiutare in questa impresa di superare gli steccati secolari. Il cammino da percorrere oggi è, in certo senso, in direzione opposta a quello seguito da lui nei confronti dei donatisti. Allora si doveva muovere dalla comunione dei sacramenti verso la comunione nella grazia dello Spirito Santo e nella carità; oggi dobbiamo muovere dalla comunione spirituale della carità verso la piena comunione anche nei sacramenti, tra cui in primo luogo l’Eucaristia.

 

 La distinzione dei due livelli di realizzazione della vera Chiesa –quello esterno dei segni e quello interiore della grazia – permette ad Agostino di formulare un principio, che sarebbe stato impensabile prima di lui: “Può dunque esserci nella Chiesa cattolica qualcosa che non è cattolico, come può esserci fuori della Chiesa cattolica qualcosa che è cattolico” . I due aspetti della Chiesa –quello visibile e istituzionale e quello invisibile e spirituale – non possono essere separati. Questo è vero e lo ha ribadito Pio XII nella Mystici corporis e il Vaticano II nella Lumen gentium, ma finchè essi, a causa di separazioni storiche e del peccato degli uomini, purtroppo non coincidono, non si può dare maggiore importanza alla comunione istituzionale che a quella spirituale.

 

 Questo per me pone un interrogativo serio. Posso io, come cattolico, sentirmi più in comunione con la moltitudine di coloro che, battezzati nella mia stessa Chiesa, si disinteressano tuttavia completamente di Cristo e della Chiesa, o se ne interessano solo per dirne male, di quanto mi senta in comunione con la schiera di coloro che, pur appartenendo ad altre confessioni cristiane, credono nelle stesse verità fondamentali a cui credo io, amano Gesù Cristo fino a dare la vita per lui, che ne diffondono il Vangelo, si danno da fare per alleviare la povertà del mondo e sono in possesso degli stessi doni dello Spirito Santo che abbiamo noi? Le persecuzioni, così frequenti oggi in certe parti del mondo, non fanno distinzione: non bruciano chiese e uccidono persone perché cattolici o perché protestanti, ma perché cristiani. Per essi siamo già “una cosa sola”!

 

Questa naturalmente è una domanda che dovrebbero porsi anche i cristiani di altre chiese nei confronti dei cattolici, e, grazie a Dio, è proprio ciò che sta avvenendo in misura nascosta ma superiore a quanto le notizie correnti lasciano indovinare. Un giorno, sono convinto, ci si stupirà, o altri si stupiranno, di non esserci accorti prima di quello lo Spirito Santo stava operando tra i cristiani nel nostro tempo al riparo dall’ufficialità. Fuori della Chiesa cattolica vi sono tantissimi cristiani che guardano ad essa con occhi nuovi e cominciano a riconoscere in essa le proprie radici.

 

 L’intuizione più nuova e più feconda di Agostino circa la Chiesa, abbiamo visto, è stata di individuare il principio essenziale della sua unità nello Spirito, anziché nella comunione orizzontale dei vescovi tra di loro e dei vescovi con il papa di Roma. Come l’unità del corpo umano è data dall’anima che vivifica e muove tutte le membra, così è l’unità del corpo di Cristo. Essa è un fatto mistico, prima ancora che una realtà che si esprime socialmente e visibilmente all’esterno. È il riflesso dell’unità perfetta che c’è tra il Padre e il Figlio per opera dello Spirito. È Gesú che ha fissato una volta per sempre questo fondamento mistico dell’unità quando ha detto: “Che siano una cosa sola come noi siamo una cosa sola” (Gv 17, 22). L’unità essenziale nella dottrina e nella disciplina sarà il frutto di questa unità mistica e spirituale, non potrà mai esserne la causa.

 

 I passi più concreti verso l’unità non sono perciò quelli che si fanno intorno a un tavolo o nelle dichiarazioni congiunte (per quanto tutto questo sia importante); sono quelli che si fanno quando credenti di diverse confessioni si trovano a proclamare insieme, in fraterno accordo, Gesú Signore, condividendo ognuno il proprio carisma e riconoscendosi fratelli in Cristo.

 

 4. Membra del corpo di Cristo, mosse dallo Spirito!

 

Nei suoi discorsi al popolo, Agostino non espone mai le sue idee sulla Chiesa, senza trarne subito delle conseguenze pratiche per la vita quotidiana dei fedeli. Ed è quello che vogliamo fare anche noi, prima di concludere la nostra meditazione, quasi collocandoci tra le file dei suoi ascoltatori di allora.

 

 L’immagine della Chiesa corpo di Cristo non è nuova di Agostino. Quello che è nuovo in lui sono le conclusioni pratiche che ne deduce per la vita dei credenti. Una è che non abbiamo più ragione di guardarci con invidia e gelosia gli uni gli altri. Quello che io non ho e gli altri invece hanno, è anche mio. Tu senti l’Apostolo elencare tutti quei meravigliosi carismi: apostolato, profezia, guarigioni…, e forse ti rattristi pensando di non averne nessuno. Ma, attento, ammonisce Agostino: “Se tu ami, quello che possiedi non è poco. Se infatti tu ami l’unità, tutto quello che in essa è posseduto da qualcuno, lo possiedi anche tu! Bandisci l’invidia e sarà tuo ciò che è mio, e se io bandisco l’invidia, è mio ciò che possiedi tu» .

 

 Solo l’occhio nel corpo ha la capacità di vedere. Ma forse che l’occhio vede soltanto per se stesso? Non è tutto il corpo che beneficia della sua capacità di vedere? Solo la mano agisce, ma forse che essa agisce soltanto per se stessa? Se un sasso sta per colpire l’occhio, forse che la mano resta immobile, dicendo che tanto il colpo non è diretto contro di essa? Lo stesso avviene nel corpo di Cristo: quello che ogni membro è e fa, lo è e lo fa per tutti!

 

Ecco svelato il segreto per cui la carità è “la via migliore di tutte” (1 Cor 12, 31): essa mi fa amare la Chiesa, o la comunità in cui vivo, e nell’unità tutti i carismi, non solo alcuni, sono miei. Anzi, c’è di più. Se tu ami l’unità più di quanto la amo io, il carisma che io possiedo è più tuo che mio. Supponiamo che io abbia il carisma di evangelizzare; io posso compiacermene o vantarmene, e allora divento “un cembalo squillante” (1 Cor 13,1); il mio carisma “a nulla mi giova”, mentre a chi ascolta, esso non cessa di giovare, nonostante il mio peccato. La carità moltiplica davvero i carismi; fa del carisma di uno il carisma di tutti.

 

Fai parte dell’unico corpo di Cristo? Ami l’unità della Chiesa?, chiedeva Agostino ai suoi fedeli. Allora se un pagano ti domanda perché non parli tutte le lingue, dal momento che è scritto che quelli che ricevettero lo Spirito Santo parlavano tutte le lingue, rispondi pure senza esitare: “Certo che parlo tutte le lingue! Appartengo infatti a quel corpo, la Chiesa, che parla tutte le lingue e in tutte le lingue annunzia le grandi opere di Dio”.

 

Quando saremo capaci di applicare questa verità non solo ai rapporti interni alla comunità in cui viviamo e alla nostra Chiesa, ma anche ai rapporti tra una Chiesa cristiana e un’altra, quel giorno l’unità dei cristiani sarà praticamente un fatto compiuto.

 

Raccogliamo l’esortazione con cui Agostino chiude tanti suoi discorsi sulla Chiesa: “Se dunque volete vivere dello Spirito Santo, conservate la carità, amate la verità, e raggiungerete l’eternità. Amen.”

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTE

 

Bernardo di Chartres, in Giovanni di Salisbury, Metalogicon, III, 4 (Corpus Chr. Cont. Med., 98, p.116).

 

A questo ambito dell’influenza di Agostino è dedicato il libro di H. de Lubac, Augustinisme et théologie moderne, Paris, Aubier 1965 (trad. ital. Agostinismo e teologia moderna, Bologna, il Mulino 1968).

 

Cf. J.N.D. Kelly, Early Christian Doctrines, London 1968 chap. XV (trad. Ital. Il pensiero cristiano delle origini, Bologna 1972, pp. 490-500

 

Agostino, Contra Epist. Parmeniani II,15,34; cf. tutto il Sermo 266.

 

Agostino, In Ioh. Evang. 45,12: “Quam multae oves foris, quam multi lupi intus!”

 

Agostino, Discorsi, 71, 12, 18 (PL 38,454).

 

Agostino, Sermo 267, 4 (PL 38, 1231)

 

Agostino, Sermo 272 (PL 38, 1247 s.)

 

Ib.

 

Cf. il documento congiunto cattolico-luterano “Dal conflitto alla comunione” , http://www.vatican.va/roman_curia/pontifical_councils/chrstuni/lutheran-fed-docs/rc_pc_chrstuni_doc_2013_dal-conflitto-alla-comunione_it.html

 

Agostino, De Baptismo, VII, 39, 77.

 

Agostino, Trattati su Giovanni, 32,8.

 

Cf. Agostino, Discorsi, 269, 1.2 (PL 38, 1235 s.).

 

Agostino, Sermo 267, 4 (PL 38, 1231).

 

 

 


Prediche per l'AVVENTO 2013 di p. Raniero Cantalamessa

 


IL MISTERO DELL'INCARNAZIONE

CONTEMPLATO CON GLI OCCHI DI FRANCESCO D'ASSISI

terza predica di Avvento di p. Raniero Cantalamessa

20 dicembre 2013

 

 

1. Greccio e l’istituzione del presepio

 

Conosciamo tutti la storia di Francesco che a Greccio, tre anni prima della morte, da inizio alla tradizione natalizia del presepio; ma è bello rievocarla, per sommi capi, in questa circostanza. Scrive dunque il Celano:

 

“Circa due settimane prima della festa della Natività, il beato Francesco chiamò a sé un uomo di nome Giovanni e gli disse: ‘Se vuoi che celebriamo a Greccio il Natale di Gesù, precedimi e prepara quanto ti dico: vorrei rappresentare il Bambino nato a Betlemme, e in qualche modo vedere con gli occhi del corpo i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose necessarie a un neonato, come fu adagiato in una greppia e come giaceva sul fieno tra il bue e l’asinello’. […]. E giunge il giorno della letizia. Francesco si è rivestito dei paramenti diaconali perché era diacono, e canta con voce sonora il santo Vangelo: quella voce forte e dolce, limpida e sonora rapisce tutti in desideri di cielo. Poi parla al popolo e con parole dolcissime rievoca il neonato Re povero e la piccola città di Betlemme”[1].

 

L’importanza dell’episodio non sta tanto nel fatto in se stesso e neppure nel seguito spettacolare che ha avuto nella tradizione cristiana;  sta nella novità che esso rivela a proposito della comprensione che il santo aveva del mistero dell’incarnazione. L’insistenza troppo unilaterale, e a volte addirittura ossessiva, sugli aspetti ontologici dell’incarnazione (natura, persona, unione ipostatica, comunicazione degli idiomi) aveva fatto perdere spesso di vista la vera natura del mistero cristiano, riducendolo a un mistero speculativo, da formulare con categorie sempre più rigorose, ma lontanissime dalla portata della gente

 

Francesco d’Assisi ci aiuta a integrare la visione ontologica dell’incarnazione, con quella più esistenziale e religiosa. Non importa, infatti, solo sapere che Dio si è fatto uomo; importa anche sapere che tipo di uomo si è fatto. È significativo il modo diverso e complementare in cui Giovanni e Paolo descrivono l’evento dell’incarnazione. Per Giovanni, essa consiste nel fatto che il Verbo che era  Dio si è fatto carne (cf. Gv 1, 1-14); per Paolo, essa consiste nel fatto che “Cristo, essendo di natura divina, ha assunto la forma di servo e ha umiliato se stesso facendosi obbediente fino alla morte” (cf. Fil 2, 5 ss.).  Per Giovanni, il Verbo, essendo  Dio,  si è fatto uomo; per Paolo “Cristo, da ricco che era, si è fatto povero” (cf. 2 Cor 8,9).

 

Francesco d’Assisi si situa nella linea di san Paolo. Più che sulla realtà ontologia dell’umanità di Cristo (nella quale crede fermamente con tutta la Chiesa), egli insiste, fino alla commozione, sull’umiltà e la povertà di essa. Due cose, dicono le fonti, avevano il potere di commuoverlo fino alle lacrime, ogni volta che ne sentiva parlare: “l’umiltà dell’incarnazione e la carità della passione”[2]. “Non poteva ripensare senza piangere in quanta penuria si era trovata in quel giorno la Vergine poverella. Una volta, mentre era seduto a pranzo, un frate gli ricordò la povertà della beata Vergine e l’indigenza di Cristo suo Figlio. Subito si alzò da mensa, scoppiò in singhiozzi di dolore, e col volto bagnato di lacrime mangiò il resto del pane sulla nuda terra”[3].

 

Francesco ha ridato così “carne e sangue” ai misteri del cristianesimo spesso “disincarnati” e ridotti a concetti e sillogismi nelle scuole teologiche e nei libri. Uno studioso tedesco ha visto in Francesco d’Assisi colui che ha creato le condizioni per la nascita dell’arte moderna rinascimentale, in quanto scioglie persone ed eventi sacri dalla rigidità stilizzata del passato e conferisce loro concretezza e vita[4].

 

2. Il Natale e i poveri

 

La distinzione tra il fatto dell’incarnazione e il modo di essa, tra la sua dimensione ontologica e quella esistenziale, ci interessa perché getta una luce singolare sul problema attuale della povertà e dell’atteggiamento dei cristiani verso di essa. Aiuta a dare un fondamento biblico e teologico alla scelta preferenziale dei poveri, proclamata nel concilio Vaticano II. Se infatti per il fatto dell’incarnazione, il Verbo ha, in certo senso, assunto ogni uomo, come dicevano certi Padri della Chiesa, per il modo in cui essa si è realizzata, egli ha assunto, a un titolo tutto particolare, il povero, l’umile, il sofferente, al punto da identificarsi con essi.

 

Nel povero non si ha, certo, lo stesso genere di presenza di Cristo che si ha nell’Eucaristia e negli altri sacramenti, ma si tratta di una presenza anch’essa vera, “reale”. Lui ha “istituito” questo segno, come ha istituito l’Eucaristia. Colui che pronunciò sul pane le parole: “Questo è il mio corpo”, ha detto queste stesse parole anche dei poveri. Le ha dette quando, parlando di quello che si è fatto, o non si è fatto, per l’affamato, l’assetato, il prigioniero, l’ignudo e l’esule, ha dichiarato solennemente: “L’avete fatto a me” e “Non l’avete fatto a me”.  Questo infatti equivale a dire:  “Quella certa persona lacera, bisognosa di un po’ di pane, quell’anziano che moriva intirizzito dal freddo sul marciapiede, ero io!”. “I Padri conciliari -ha scritto Jean Guitton, osservatore laico al Vaticano II, hanno ritrovato il sacramento della povertà, la presenza di Cristo sotto le specie di coloro che soffrono”[5].

 

Non accoglie pienamente Cristo chi non è disposto ad accogliere il povero con cui egli si è identificato. Chi, al momento della comunione, si accosta pieno di fervore a ricevere Cristo, ma ha il cuore chiuso ai poveri, somiglia, direbbe sant’Agostino, a uno che vede venire da lontano un amico che non vede da anni. Pieno di gioia, gli corre incontro, si alza in punta dei piedi per baciargli la fronte, ma nel fare ciò non si accorge che gli sta calpestando i piedi con scarpe chiodate. I poveri infatti sono i piedi nudi che Cristo ha ancora posati su questa terra.

 

Il povero è anch’esso un “vicario di Cristo”, uno che tiene le veci di Cristo. Vicario, in senso passivo, non attivo. Non nel senso, cioè, che quello che fa il povero è come se lo facesse Cristo, ma nel senso che quello che si fa al povero è come se lo si facesse a Cristo. È vero, come scrive san Leone Magno, che dopo l’ascensione, “tutto quello che c’era di visibile nel nostro  Signore Gesù Cristo è passato nei segni sacramentali della Chiesa”[6], ma è altrettanto vero che, dal punto di vista esistenziale, esso è passato anche nei poveri e in tutti coloro di cui egli ha detto: “L’avete fatto a me”.

 

Traiamo la conseguenza che deriva da tutto ciò sul piano dell’ecclesiologia. Giovanni XXIII, in occasione del Concilio, ha coniato l’espressione “Chiesa dei poveri”[7]. Essa riveste un significato che va forse al di là di quello che si intende a prima vista. La Chiesa dei poveri non è costituita solo dai poveri della Chiesa! In un certo senso, tutti i poveri del mondo, siano essi battezzati o meno, le appartengono. La loro povertà e sofferenza è il loro battesimo di sangue. Se i cristiani sono coloro che sono stati “battezzati nella morte di Cristo” (Rom 6,3), chi è, di fatto, più battezzato nella morte di Cristo di loro?

 

Come non considerarli, in qualche modo, Chiesa di Cristo, se Cristo stesso li ha dichiarati il suo corpo? Essi sono “cristiani”, non perché si dichiarano appartenenti a Cristo, ma perché Cristo li ha dichiarati appartenenti a sé: “L’avete fatto a me!”. Se c’è un caso in cui la controversa espressione “cristiani anonimi” può avere un’applicazione plausibile, esso è proprio questo dei poveri.

 

La Chiesa di Cristo è dunque immensamente più vasta di quello che dicono le statistiche correnti. Non per semplice modo di dire, ma veramente, realmente. Nessuno dei fondatori di religioni si è identificato con i poveri come ha fatto Gesù. Nessuno ha proclamato: “Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25, 40), dove il “fratello più piccolo” non indica solo il credente in Cristo, ma, come è ammesso da tutti, ogni uomo.

 

Ne deriva che il papa, vicario di Cristo, è davvero il “padre dei poveri”, il pastore di questo immenso gregge, ed è una gioia e uno stimolo per tutto il popolo cristiano vedere quanto questo ruolo è stato preso a cuore dagli ultimi Sommi Pontefici e in modo tutto particolare dal pastore che siede oggi sulla cattedra di Pietro. Egli è la voce più autorevole che si leva in loro difesa. La voce di chi non ha voce. Non si è davvero “dimenticato dei poveri”!

 

Noi tendiamo a mettere, tra noi e i poveri, dei doppi vetri. L’effetto dei doppi vetri, oggi così sfruttato nell’edilizia, è che impedisce il passaggio del freddo, del caldo e dei rumori, stempera tutto, fa giungere tutto attutito, ovattato. E infatti vediamo i poveri muoversi, agitarsi, urlare dietro lo schermo televisivo, sulle pagine dei giornali e delle riviste missionarie, ma il loro grido ci giunge come da molto lontano. Non ci penetra al cuore. Lo dico a mia stessa confusione e vergogna. La parola: “i poveri!” “gli extracomunitari!” provoca, nei paesi ricchi, quello che provocava nei romani antichi il grido “i barbari!”: lo sconcerto, il panico. Essi si affannavano a costruire muraglie e a inviare eserciti alle frontiere per tenerli a bada, ma la storia dice che è tutto inutile.

 

Noi piangiamo e protestiamo  -e giustamente! – per i bambini a cui si impedisce di nascere, ma non dovremmo fare altrettanto per i milioni di bambini nati e fatti morire per fame, malattie, bambini costretti a fare la guerra e uccidersi tra loro per interessi a cui non siamo estranei noi dei paesi ricchi? Non sarà perché i primi appartengono al nostro continente e hanno il nostro stesso colore, mentre i secondi appartengono a un altro continente e hanno un diverso colore? Protestiamo – e più che giustamente! – per gli anziani, i malati, i malformati aiutati (a volte spinti) a morire con l’eutanasia; ma non dovremmo fare altrettanto per gli anziani che muoiono assiderati di freddo o abbandonati soli al loro destino? La legge liberista del “vivere e lasciar vivere” non dovrebbe mai trasformarsi nella legge del “vivere e lasciar morire”, come invece sta avvenendo nel mondo intero.

 

Certo, la legge naturale è santa, ma è proprio per avere la forza di applicarla  che abbiamo bisogno di ripartire dalla fede in Gesú Cristo. San Paolo ha scritto: “Ciò che era impossibile alla legge, resa impotente a causa della carne, Dio lo ha reso possibile mandando il proprio Figlio” (Rom 8, 3). I primi cristiani, con i loro costumi, aiutarono lo stato a cambiare le proprie leggi; noi cristiani di oggi non possiamo fare il contrario e pensare che sia lo stato con le sue leggi a dover cambiare i costumi della gente.

 

3.  Amare, soccorrere, evangelizzare i poveri

 

La prima cosa da fare, nei confronti dei poveri, è dunque rompere i doppi vetri, superare l’indifferenza e l’insensibilità. Dobbiamo, come ci esorta appunto il papa, “accorgerci” dei poveri, lasciarci prendere da una sana inquietudine per la loro presenza in mezzo a noi, spesso a due passi da casa nostra. Quello che dobbiamo fare in concreto per essi, lo si può riassumere in tre parole: amarli, soccorrerli, evangelizzarli.

 

Amare i poveri. L’amore per i poveri è uno dei tratti più comuni della santità cattolica. In san Francesco stesso, l’abbiamo visto nella prima meditazione, l’amore per i poveri, a partire da Cristo povero, viene prima dell’amore della povertà e fu esso che lo portò a sposare la povertà.  Per alcuni santi, come san Vincenzo de’ Paoli, Madre Teresa di Calcutta e innumerevoli altri, l’amore per i poveri è stato addirittura la loro via alla santità, il loro carisma.

 

Amare i poveri significa anzitutto rispettarli e riconoscere la loro dignità. In essi, proprio per la mancanza di altri titoli e distinzioni secondarie, brilla di luce più viva la radicale dignità dell’essere umano. In una omelia di Natale tenuta a Milano, il cardinal Montini diceva: “La visione completa della vita umana sotto la luce di Cristo vede in un povero qualche cosa di più di un bisognoso; vi vede un fratello misteriosamente rivestito di una dignità, che obbliga a tributargli riverenza, ad accoglierlo con premura, a compatirlo  oltre il merito”[8].

 

Ma i poveri non meritano soltanto la nostra commiserazione; meritano anche la nostra ammirazione. Essi sono i veri campioni dell’umanità. Si distribuiscono ogni anno coppe, medaglie d’oro, d’argento, di bronzo; al merito, alla memoria o ai vincitori di gare. E magari solo perché sono stati capaci di correre in una frazione di secondo meno degli altri i cento, i duecento o quattrocento metri a ostacoli, o di saltare un centimetro più alto degli altri, o di vincere una maratona o una gara di slalom.

 

Eppure se uno osservasse di quali salti mortali, di quale resistenza, di quali slalom, sono capaci a volte i poveri, e non una volta, ma per tutta la vita, le prestazioni dei più famosi atleti ci sembrerebbero giochetti da fanciulli. Cos’è una maratona in confronto, per esempio, a quello che fa un uomo-risciò di Calcutta, il quale alla fine della vita ha fatto a piedi l’equivalente di diversi giri della terra, nel caldo più snervante, trainando uno o due passeggeri, per strade dissestate, tra buche e pozzanghere, sgusciando tra un auto e l’altra per non farsi travolgere?

 

Francesco d’Assisi ci aiuta a scoprire un motivo ancora più forte per amare i poveri: il fatto che essi non sono semplicemente i nostri “simili” o il nostro “prossimo”: sono nostri fratelli! Fratelli sono coloro che hanno uno stesso padre e gli uomini sono fratelli perché hanno un unico padre nei cieli!  Gesú aveva detto: “Uno solo è il vostro Padre celeste e voi siete tutti fratelli” (cf. Mt 23,8-9), ma questa parola era stata intesa finora come rivolta ai soli discepoli. Nella tradizione cristiana, fratello in senso stretto è solo colui che condivide la stessa fede e ha ricevuto lo stesso battesimo.

 

Francesco riprende la parola di Cristo e le da una portata universale che è quella che certamente aveva in mente Gesù. Francesco ha messo davvero ”tutto il mondo in stato di fraternità”[9]. Chiama fratelli non solo i suoi frati e i compagni di fede, ma anche i lebbrosi, i briganti, i saraceni, cioè credenti e non credenti, buoni e cattivi, soprattutto i poveri. Novità, questa, assoluta, estende il concetto di fratello e sorella anche alle creature inanimate: il sole, la luna, la terra, l’acqua  e perfino la morte. Questa, evidentemente, è poesia, più che teologia. Il santo sa bene che tra esse e le creature umane,  fatte a immagine di   Dio, c’è la stessa differenza che tra il figlio di un artista e le opere da lui create.  Ma è che il senso di fraternità universale del Poverello non ha confini.

 

Questo della fraternità è il contributo specifico che la fede cristiana può dare per rafforzare nel mondo la pace e la lotta alla povertà, come suggerisce il tema della prossima Giornata mondiale della pace “Fraternità, fondamento e via per la pace”. A pensarci bene, esso è l’unico fondamento vero e non velleitario. Che senso ha infatti parlare di fraternità e di solidarietà umana, se si parte da una certa visione scientifica del mondo che conosce, come uniche forze in azione nel mondo, “il caso e la necessità”? Se si parte, in altre parole, da una visione filosofica come quella di Nietzsche, secondo cui il mondo non è che volontà di potenza e ogni tentativo di opporsi a ciò è solo segno del risentimento dei deboli contro i forti”? Ha ragione chi dice che “se l’essere è solo caos e forza, l’azione che ricerca la pace e la giustizia è destinata inevitabilmente a rimanere senza fondamento”[10]. Manca, in questo caso, una ragione sufficiente per opporsi al liberismo sfrenato e all’”inequità” denunciata con forza dal papa nell’esortazione Evangelii gaudium.

 

Al dovere di amare e rispettare i poveri, segue quello di soccorrerli. Qui ci viene in aiuto san Giacomo. A che serve, egli dice, impietosirsi davanti a un fratello o una sorella privi del vestito e del cibo, dicendo loro : “Poveretto, come soffri! Vai, riscàldati, sàziati!”, se  tu non gli dai nulla di quanto ha bisogno per riscaldarsi e nutrirsi? La compassione, come la fede, senza le opere è morta (cf. Gc 2, 15-17). Gesù nel giudizio non dirà: “Ero nudo e mi avete compatito”; ma “Ero nudo e mi avete vestito”. Non bisogna prendersela con Dio davanti alla miseria del mondo, ma con noi stessi. Un giorno vedendo una bambina tremante di freddo e che piangeva per la fame, un uomo fu preso da un moto di ribellione e gridò: “O Dio, dove sei? Perché non fai qualcosa per quella  creatura innocente?”. Ma una voce interiore gli rispose: “Certo che ho fatto qualche cosa. Ho fatto te!”. E capì immediatamente.

 

Oggi però non basta più la semplice elemosina. Il problema della povertà è divenuto planetario. Quando i Padri della Chiesa parlavano dei poveri pensavano ai poveri della loro città, o al massimo a quelli della città vicina. Non conoscevano quasi altro, se non molto vagamente e, del resto, anche se l’avessero conosciuto, far pervenire gli aiuti sarebbe stato ancora più difficile, in una società come la loro. Oggi sappiamo che questo non basta, anche se nulla ci dispensa dal fare quello che possiamo anche a questo livello individuale.

 

L’esempio di tanti uomini e donne del nostro tempo ci mostra che ci sono tante cose che si possono fare per soccorrere, ognuno secondo i propri mezzi e possibilità, i poveri e promuoverne l’elevazione. Parlando del “grido dei poveri”, nella Evangelica testificatio, Paolo VI diceva in particolare a noi religiosi: “Esso induce certuni tra voi a raggiungere i poveri nella loro condizione, a condividere le loro ansie lancinanti. Invita, d’altra parte, non pochi vostri istituti a riconvertire in favore dei poveri certe loro opere”[11].

 

Eliminare o ridurre l’ingiusto e scandaloso abisso che esiste tra ricchi e poveri nel mondo è il compito più urgente e più ingente che il millennio da poco conclusosi ha consegnato al nuovo millennio in cui siamo entrati. Speriamo che non sia ancora il problema numero uno che il presente millennio lascia in eredità a quello successivo.

 

Infine, evangelizzare i poveri. Questa fu la missione che Gesù riconobbe come la sua per eccellenza: “Lo Spirito del Signore è sopra di me, mi ha unto per evangelizzare i poveri” (Lc 4, 18) e che indicò come segno della presenza del Regno agli inviati del Battista: “Ai poveri è annunciata la lieta novella” (Mt 11, 15). Non dobbiamo permettere che la nostra cattiva coscienza ci spinga a commettere l’enorme ingiustizia di privare della buona notizia coloro che ne sono i primi e più naturali destinatari. Magari, adducendo, a nostra scusa, il proverbio che “ventre affamato non ha orecchi”. L’azione sociale deve accompagnare l’evangelizzazione, mai sostituirla.

 

Gesù moltiplicava i pani e insieme anche la parola, anzi prima amministrava, a volte per tre giorni di seguito, la Parola poi si preoccupava anche dei pani. Non di solo pane vive il povero, ma anche di speranza e di ogni parola che esce dalla bocca di Dio. I poveri hanno il sacrosanto diritto di udire il Vangelo integrale, non in edizione ridotta o polemica; il vangelo che parla di amore ai poveri, ma non di odio ai ricchi.

 

4. Gioia nei cieli e gioia sulla terra

 

Terminiamo su un altro tono. Per Francesco d’Assisi, Natale non era solo l’occasione per piangere sulla povertà di Cristo; era anche la festa che aveva il potere di fare esplodere tutta la capacità di gioia che c’era nel suo cuore, ed era immensa. A Natale egli faceva letteralmente pazzie.

 

“Voleva che in questo giorno i poveri edi mendicanti fossero saziati dai ricchi, e che i buoi e gli asini ricevessero una razione di cibo e di fieno più abbondante del solito. Se potrò parlare all’imperatore – diceva – lo supplicherò di emanare un editto generale, per cui tutti quelli che ne hanno possibilità, debbano spargere per le vie frumento e granaglie, affinché in un giorno di tanta solennità gli uccellini e particolarmente le sorelle allodole ne abbiano in abbondanza”[12].

 

Diventava come uno di quei bambini che stanno con gli occhi pieni di stupore davanti al presepio. Durante la funzione natalizia a Greccio, racconta il biografo, quando pronunciava il nome ‘Betlemme’ si riempiva la bocca di voce e ancor più di tenero affetto, producendo un suono come belato di pecora. E ogni volta che diceva ‘Bambino di Betlemme’ o ‘Gesú’, passava la lingua sulle labbra, quasi a gustare e trattenere tutta la dolcezza di quelle parole”.

 

C’è un canto natalizio che esprime alla perfezione i sentimenti di San Francesco davanti al presepio e la cosa non stupisce se pensiamo che esso è stato scritto, parole e musica, da un santo come lui, sant’Alfonso Maria de Liguori. Ascoltandolo nel tempo natalizio, lasciamoci commuovere dal suo messaggio semplice ma essenziale:

 

Tu scendi dalle stelle o Re del cielo,

 e vieni in una grotta al freddo e al gelo…

A te che sei del mondo il Creatore,

 mancano i panni e il fuoco, o mio Signore.

 Caro eletto pargoletto, quanta questa povertà

 più mi innamora, giacché ti fece amor povero ancora.

 

 

Santo Padre, Venerabili Padri, fratelli e sorelle, Buon Natale!


LA UMILTÀ COME VERITÀ E COME SERVIZIO

IN S. FRANCESCO D’ASSISI

Seconda Predica di Avvento 2013 - 13 dicembre 2013

 

 

1. Umiltà oggettiva e umiltà soggettiva

 

Ascoltiamo un episodio della vita di Francesco d’Assisi nell’incantevole lingua dei Fioretti:

Uno dì tornando santo Francesco dalla selva e dalla orazione, e sendo allo uscire della selva, il detto frate Masseo volle provare sì com’egli fusse umile, e fecieglisi incontra, e quasi proverbiando disse: «Perché a te, perché a te, perché a te?». Santo Francesco risponde: «Che è quello che tu vuoi dire?». Disse frate Masseo: «Dico, perché a te tutto il mondo viene dirieto, e ogni persona pare che desideri di vederti e d’udirti e d’ubbidirti? Tu non se’ bello uomo del corpo, tu non se’ di grande scienza, tu non se’ nobile onde dunque a te che tutto il mondo ti venga dietro?». Udendo questo santo Francesco, tutto rallegrato in ispirito […], si rivolse a frate Masseo e disse: «Vuoi sapere perché a me? vuoi sapere perché a me? vuoi sapere perché a me tutto ’l mondo mi venga dietro? Questo io ho imperciò che gli occhi santissimi di  Dio non hanno veduto fra li peccatori nessuno più vile, né più insufficiente, né più grande peccatore di me” [1]

 

La domanda si pone oggi a più forte ragione che al tempo di Frate Masseo. A quel tempo il mondo che andava dietro a Francesco era il mondo limitato dell’Umbria e dell’Italia centrale; ora esso è letteralmente tutto il mondo, spesso anche il mondo non credente o dei credenti di altre religioni. La risposta del Poverello a Frate Masseo era sincera, ma  non era la vera. In realtà tutto il mondo ammira ed è affascinato dalla figura di Francesco perché vede realizzati in lui quei valori ai quali tutti gli uomini aspirano: la libertà, la pace con se stessi e con il creato, la gioia, la fratellanza universale.

 

Noi parleremo, in questa circostanza, di una dote di Francesco alla quale il mondo non aspira affatto, o ben pochi lo fanno, ma che è invece la radice da cui sono sbocciati in lui tutti quegli altri valori tanto apprezzati: la sua umiltà. Secondo Dante Alighieri, tutta la gloria di Francesco dipende dal suo “essersi fatto pusillo”[2], cioè dalla sua umiltà.

 

Ma in che è consistita l’umiltà di san Francesco? In tutte le lingue, attraverso cui è passata la Bibbia per giungere fino a noi, e cioè in ebraico, in greco, in latino e in italiano, la parola “umiltà” possiede due significati fondamentali: uno oggettivo che indica bassezza, piccolezza o miseria di fatto e uno soggettivo che indica il sentimento e il riconoscimento che si ha della propria piccolezza. Quest’ultimo è ciò che intendiamo per virtù dell’umiltà.

 

Quando nel Magnificat Maria dice: “Ha guardato l’umiltà (tapeinosis) della sua serva”, intende umiltà nel senso oggettivo, non soggettivo! Per questo molto opportunamente in diverse lingue, per esempio in tedesco, il termine è tradotto con “piccolezza” (Niedrigkeit). Come si può pensare, del resto, che Maria esalti la sua umiltà e attribuisca ad essa la scelta di Dio, senza, con ciò stesso, distruggere l’umiltà di Maria? Eppure a volte si è scritto incautamente che Maria non si riconosce nessun’altra virtù se non quella dell’umiltà, come se, in tal modo, si facesse un grande onore, e non invece un grande torto, a tale virtù.

 

La virtù dell’umiltà ha uno statuto tutto speciale: ce l’ha chi non crede di averla, non ce l’ha chi crede di averla. Solo Gesù può dichiararsi “umile di cuore” ed esserlo veramente; questa, vedremo, è la caratteristica unica e irripetibile dell’umiltà dell’uomo-Dio. Maria non aveva, dunque, la virtù dell’umiltà? Certo che l’aveva e in grado sommo, ma questo lo sapeva solo Dio, lei no. Proprio questo, infatti costituisce il pregio ineguagliabile della vera umiltà: che il suo profumo è colto soltanto da Dio, non da chi lo emana. San Bernardo scrive: “Il vero umile è colui che vuole essere ritenuto vile, non proclamato umile”[3]. L’umiltà di Francesco, ce lo ha mostrato il fioretto di Frate Masseo, è proprio di questo tipo: egli non si riteneva umile, ma si considerava vile.

 

2. L’umiltà come verità

 

L’umiltà di Francesco ha due fonti di illuminazione, una di natura teologica e una di natura cristologica. Riflettiamo sulla prima. Nella Bibbia troviamo atti di umiltà che non partono dall’uomo, dalla considerazione della propria miseria o dal proprio peccato, ma hanno come unica ragione  Dio e la sua santità. Tale è l’esclamazione di Isaia “Sono un uomo dalle labbra impure”, di fronte alla improvvisa manifestazione della gloria e della santità di  Dio nel tempio (Is 6, 5 s); tale è anche il grido di Pietro dopo la pesca miracolosa: “Allontanati da me che sono un peccatore!” (Lc 5,8).

 

Siamo davanti all’umiltà essenziale, quella della creatura che prende coscienza di sé al cospetto di  Dio. Finché la persona si commisura con se stesso, con gli altri o con la società, non avrà mai l’idea esatta di ciò che è; gli manca la misura. “Che accento infinito, ha scritto Kierkegaard, cade sull’io nel momento in cui ottiene come misura  Dio!” [4]. Francesco ha posseduto in modo eminente questa umiltà. Una massima che ripeteva spesso era: “Quello che un uomo è davanti a  Dio, quello è, e nulla più”[5].

 

I Fioretti raccontano che una notte, frate Leone volle spiare da lontano cosa faceva Francesco durante la sua preghiera notturna nel bosco della Verna e da lontano lo udiva mormorare a lungo alcune parole. Il giorno dopo il santo lo chiamò e, dopo averlo amabilmente rimproverato per aver contravvenuto al suo ordine, gli rivelò il contenuto della sua preghiera: “Sappi, frate pecorella di Gesù Cristo, che quando io dicea quelle parole che tu udisti, allora mi erano mostrati all’anima mia due lumi, l’uno della notizia e conoscimento di me medesimo, l’altro della notizia e conoscimento del Creatore. Quando io dicea: Chi se’ tu, o dolcissimo Iddio mio?, allora ero io in un lume di contemplazione, nel quale io vedea l’abisso della infinita bontà e sapienza e potenza di Dio; e quando io dicea: Che sono io?, io ero in lume di contemplazione, nel quale io vedea il profondo lagrimoso della mia viltà e miseria?”[6]

 

Era quello che chiedeva a Dio sant’Agostino e che considerava la somma di tutta la sapienza: “Noverim me, noverim te. Che io conosca me e che io conosca te; che io conosca me per umiliarmi e che io conosca te per amarti”[7].

 

L’episodio di frate Leone è certamente abbellito, come sempre nei Fioretti, ma il contenuto corrisponde perfettamente all’idea che Francesco aveva di sé e di Dio. Ne è prova l’inizio del Cantico delle creature con la distanza infinita che pone tra  Dio “altissimo, onnipotente, bon Signore”, a cui è dovuta la lode, la gloria, l’onore e la benedizione”, e il misero mortale che non è degno neppure di “mentovare”, cioè pronunziare, il suo nome.

 

Altissimu, onnipotente, bon Signore,

Tue so’ le laude, la gloria e l’honore et onne benedictione.

Ad Te solo, Altissimo, se konfane,

et nullu homo ène dignu Te mentovare.

 

In questa luce, che ho chiamato teologica, l’umiltà ci appare essenzialmente come verità. “Mi domandavo un giorno, scrive Santa Teresa d’Avila,  per quale motivo il Signore ama tanto l’umiltà e mi venne in mente d’improvviso, senza alcuna mia riflessione, che ciò deve essere perché egli è somma Verità e l’umiltà è verità”[8].

 

E’ una luce che non umilia, ma al contrario da gioia immensa ed esalta. Essere umili infatti non significa essere scontenti di sé e neppure riconoscere la propria miseria, né, per certi versi, la propria piccolezza. E’ guardare Dio prima che se stessi e misurare l’abisso che separa il finito dall’infinito. Più ci si rende conto di questo, più si diventa umili. Allora si comincia perfino a gioire del proprio nulla, poiché è grazie ad esso che si può offrire a  Dio un volto la cui piccolezza e la cui miseria ha affascinato fin dall’eternità il cuore della Trinità.

 

Una grande discepola del Poverello, che papa Francesco ha da poco proclamato santa, Angela da Foligno, vicina a morire, esclamò: “O nulla sconosciuto, o nulla sconosciuto! L’anima non può avere migliore visione in questo mondo che contemplare il proprio nulla e abitare in esso come nella cella di un carcere”[9].C’è un segreto in questo consiglio, una verità che si sperimenta provando. Si scopre allora che esiste davvero questa cella e che vi si può entrare davvero ogni volta che si vuole. Essa consiste nel quieto e tranquillo sentimento di essere un nulla davanti a  Dio, ma un nulla amato da lui!

 

Quando si è dentro la cella di questo carcere luminoso, non si vedono più i difetti del prossimo, o si vedono in un’altra luce. Si capisce che è possibile, con la grazia e con l’esercizio, realizzare ciò che dice l’Apostolo e che sembra, a prima vista, eccessivo e cioè di “considerare tutti gli altri superiori a sé” (cf Fil 2, 3), o almeno si capisce come esso possa essere stato possibile ai santi.

 

Chiudersi in quel carcere è tutt’altro, dunque, che chiudersi in se stessi; è, invece, aprirsi agli altri, all’essere, all’oggettività delle cose. Il contrario di quello che hanno sempre pensato i nemici dell’umiltà cristiana. È chiudersi all’egoismo, non nell’egoismo. È la vittoria su uno dei mali che anche la moderna psicologia giudica esiziale per la persona umana: il narcisismo. In quella cella, inoltre, non penetra il nemico. Un giorno, Antonio il Grande ebbe una visione; vide, in un attimo, tutti gli infiniti lacci del nemico spiegati per terra e disse gemendo: “Chi potrà dunque evitare tutti questi lacci?” e intese una voce rispondergli: “Antonio, l’umiltà!”[10]. “Nulla, scrive l’autore dell’Imitazione di Cristo, riuscirà a far insuperbire colui che è saldamente fissato in  Dio”[11].

 

3. L’umiltà come servizio d’amore

 

Abbiamo parlato dell’umiltà come verità della creatura davanti a  Dio. Paradossalmente però la cosa che più riempie di stupore l’anima di Francesco non è la grandezza di  Dio, ma la sua umiltà. Nelle Laudi di Dio Altissimo che si conservano scritte di suo pugno in Assisi, tra le perfezioni di Dio  -“Tu sei Santo. Tu sei Forte. Tu sei Trino e Uno. Tu sei Amore, Carità. Tu sei Sapienza…”-, a un certo punto, Francesco ne inserisce una insolita: “Tu sei umiltà!” Non è un titolo messo lì per sbaglio. Francesco ha colto una verità profondissima su  Dio che dovrebbe riempire di stupore anche noi.

 

Dio è umiltà perché è amore. Di fronte alle creature umane,  Dio si trova sprovvisto di ogni capacità non soltanto costrittiva, ma anche difensiva. Se gli esseri umani scelgono, come hanno fatto, di rifiutare il suo amore, egli non può intervenire di autorità per imporsi a loro. Non può fare altro che rispettare la libera scelta degli uomini. Si potrà rigettarlo, eliminarlo: egli non si difenderà, lascerà fare. O meglio, la sua maniera di difendersi e di difendere gli uomini contro il loro stesso annientamento, sarà quella di amare ancora e sempre, eternamente. L’amore crea per sua natura dipendenza e la dipendenza l’umiltà. Così è anche, misteriosamente, in  Dio.

 

L’amore fornisce dunque la chiave per capire l’umiltà di Dio: ci vuole poca potenza per mettersi in mostra, ce ne vuole molta invece per mettersi da parte, per cancellarsi.  Dio è questa illimitata potenza di nascondimento di sé e come tale si rivela nell’incarnazione. La manifestazione visibile dell’umiltà di  Dio si ha contemplando Cristo che si mette in ginocchio davanti ai suoi discepoli per lavare loro i piedi – ed erano, possiamo immaginarlo, piedi sporchi -, e ancor più, quando, ridotto alla più radicale impotenza sulla croce, continua ad amare, senza mai condannare.

 

Francesco ha colto questo nesso strettissimo tra l’umiltà di  Dio e l’incarnazione. Ecco alcune sue infuocate parole: “Ecco ogni giorno egli si umilia, come quando dalla sede regale discese nel grembo della Vergine; ogni giorno egli stesso viene a noi in apparenza umile; ogni giorno discende dal seno del Padre sull’altare nelle mani del sacerdote[12]”. “O umiltà sublime! O sublimità umile, che il Signore dell’universo, Dio e Figlio di Dio, così si umili da nascondersi, per la nostra salvezza, sotto poca apparenza di pane! Guardate, fratelli, l’umiltà di Dio, ed aprite davanti a lui i vostri cuori”[13].

 

Abbiamo scoperto così il secondo movente dell’umiltà di Francesco: l’esempio di Cristo. È lo stesso movente che Paolo indicava ai Filippesi quando raccomandava loro di avere gli stessi sentimenti di Cristo Gesù che “umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte” (Fil 2, 5.8). Prima di Paolo, era stato Gesù in persona a invitare i discepoli a imitare la sua umiltà: “Imparate da me che sono mite e umile di cuore!” (Mt 11, 29).

 

In che cosa, ci si potrebbe domandare, Gesù ci dice di imitare la sua umiltà? In che cosa è stato umile Gesù? Scorrendo i Vangeli, non troviamo mai la benché minima ammissione di colpa sulla bocca di Gesù, né quando conversa con gli uomini, né quando conversa con il Padre. Questa – detto per inciso – è una delle prove più nascoste, ma anche delle più convincenti, della divinità di Cristo e della assoluta unicità della sua coscienza. In nessun santo, in nessun grande della storia e in nessun fondatore di religione, si riscontra una tale coscienza di innocenza.

 

Tutti riconoscono, più o meno, di aver commesso qualche errore e di avere qualcosa da farsi perdonare, almeno da Dio. Gandhi, per esempio, aveva una coscienza acutissima di avere, in talune occasioni, preso delle posizioni errate; aveva anche lui i suoi rimorsi. Gesù mai. Egli può dire rivolto ai suoi avversari: “Chi di voi può convincermi di peccato?” (Gv 8, 46). Gesù proclama di essere “Maestro e Signore” (cf Gv 13, 13), di essere più di Abramo, di Mosè, di Giona, di Salomone. Dov’è, dunque, l’umiltà di Gesù, per poter dire: “Imparate da me che sono umile”?

 

Qui scopriamo una cosa importante. L’umiltà non consiste principalmente nell’essere piccoli, perché si può essere piccoli, senza essere umili; non consiste principalmente nel sentirsi piccoli, perché uno può sentirsi piccolo ed esserlo realmente e questa sarebbe oggettività, non ancora umiltà; senza contare che il sentirsi piccoli e insignificanti può nascere anche da un complesso di inferiorità e portare al ripiegamento su di sé e alla disperazione, anziché all’umiltà. Dunque l’umiltà, per sé, nel grado più perfetto, non è nell’essere piccoli, non è nel sentirsi piccoli, o proclamarsi piccoli. È nel farsi piccoli, e non per qualche necessità o utilità personale, ma per amore, per “innalzare” gli altri.

 

Così è stata l’umiltà di Gesù; egli si è fatto tanto piccolo da “annullarsi” addirittura per noi. L’umiltà di Gesù è l’umiltà che scende da Dio e che ha il suo modello supremo in Dio, non nell’uomo. Nella posizione in cui si trova,  Dio non può “elevarsi”; nulla esiste sopra di lui. Se Dio esce da se stesso e fa qualcosa al di fuori della Trinità, questo non potrà essere che un abbassarsi e un farsi piccolo; non potrà essere, in altre parole, che umiltà, o, come dicevano alcuni Padri greci, synkatabasis, cioè condiscendenza.

 

San Francesco fa di “sorella acqua” il simbolo dell’umiltà, definendola “utile, umile, preziosa e casta”. L’acqua infatti mai si “innalza”, mai “ascende”, ma sempre “discende”, fino a che non ha raggiunto il punto più basso. Il vapore sale ed è perciò il simbolo tradizionale dell’orgoglio e della vanità; l’acqua scende ed è perciò simbolo dell’umiltà.

 

Ora sappiamo cosa vuol dire la parola di Gesù: “Imparate da me che sono umile”. È un invito a farci piccoli per amore, a lavare, come lui, i piedi ai fratelli. In Gesù vediamo, però, anche la serietà di questa scelta. Non si tratta infatti di scendere e farsi piccolo di tanto in tanto, come un re che, nella sua generosità, ogni tanto, si degna di scendere tra il popolo e magari anche di servirlo in qualcosa. Gesù si fece “piccolo”, come “si fece carne”, cioè stabilmente, fino in fondo. Scelse di appartenere alla categoria dei piccoli e degli umili.

 

Questo volto nuovo dell’umiltà si riassume in una parola: servizio. Un giorno – si legge nel Vangelo – i discepoli avevano discusso tra di loro chi fosse “il più grande”; allora Gesù, “sedutosi” – come per dare maggiore solennità alla lezione che stava per impartire –, chiamò a sé i Dodici e disse loro:“Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servo di tutti” (Mc 9, 35). Chi vuol essere il “primo” sia l’“ultimo”, cioè scenda, si abbassi. Ma poi spiega subito cosa intende per ultimo: sia il “servo” di tutti. L’umiltà proclamata da Gesù è dunque servizio. Nel Vangelo di Matteo, questa lezione di Gesù viene corroborata con un esempio: “Appunto, come il Figlio dell’uomo che non è venuto per essere servito ma per servire” (Mt 20, 28).

 

4. Una Chiesa umile

 

Qualche considerazione pratica sulla virtù dell’umiltà, presa in tutte le sue manifestazioni, e cioè sia nei confronti di  Dio che nei confronti degli uomini. Non ci dobbiamo illudere di aver raggiunto l’umiltà solo perché la parola di Dio ci ha condotti a scoprire il nostro nulla e ci ha mostrato che essa deve tradursi in servizio fraterno. A che punto siamo giunti in fatto di umiltà, si vede quando l’iniziativa passa da noi agli altri, cioè quando non siamo più noi a riconoscere i nostri difetti e torti, ma sono gli altri a farlo; quando non siamo solo capaci di dirci la verità, ma anche di lasciarcela dire, di buon grado, da altri. Prima di riconoscersi davanti a frate Matteo come il più vile degli uomini, Francesco aveva accettato, di buon grado e per molto tempo, di essere deriso, ritenuto da amici, parenti e dall’intero paese di Assisi un ingrato, un esaltato, uno che non avrebbe combinato mai nulla di buono nella vita.

 

A che punto siamo nella lotta contro l’orgoglio, si vede, in altre parole, da come reagiamo, esternamente o internamente, quando siamo contraddetti, corretti, criticati o lasciati da parte. Pretendere di uccidere il proprio orgoglio colpendolo da soli, senza che nessuno intervenga dal di fuori, è come usare il proprio braccio per punire se stesso: non ci si farà mai veramente male. È come se un medico volesse asportarsi da solo un tumore.

 

Quando io cerco di ricevere gloria da un uomo per qualcosa che dico o che faccio, è quasi certo che quello che mi sta davanti cerca di ricevere gloria da me per come ascolta e per come risponde. E così avviene che ognuno cerca la propria gloria e nessuno la ottiene e se, per caso, la ottiene non è che “vanagloria”, cioè gloria vuota, destinata a dissolversi in fumo con la morte. Ma l’effetto è ugualmente terribile; Gesù attribuiva alla ricerca della propria gloria addirittura l’impossibilità di credere. Diceva ai farisei: “Come potete credere voi che prendete gloria gli uni dagli altri e non cercate la gloria che viene da Dio solo?” (Gv 5, 44).

 

Quando ci ritroviamo invischiati in pensieri e aspirazioni di gloria umana, gettiamo nella mischia di tali pensieri, come una torcia ardente, la parola che Gesù stesso usò e che ha lasciato a noi: “Io non cerco la mia gloria!” (Gv 8, 50). Quella dell’umiltà è una lotta che dura tutta la vita e si estende a ogni aspetto di essa. L’orgoglio è capace di nutrirsi sia del male che del bene; anzi, a differenza di ciò che avviene per ogni altro vizio, il bene, non il male, è il terreno di coltura preferito di questo terribile “virus”. Scrive argutamente il filosofo Pascal: “La vanità ha così profonde radici nel cuore dell’uomo che un soldato, un servo di milizie, un cuoco, un facchino, si vanta e pretende di avere i suoi ammiratori e gli stessi filosofi ne vogliono. E coloro che scrivono contro la vanagloria aspirano al vanto di aver scritto bene, e coloro che li leggono, al vanto di averli letti; e io, che scrivo questo, nutro forse lo stesso desiderio; e coloro che mi leggeranno forse anche”[14].

 

Perché l’uomo “non monti in superbia”, Dio di solito lo fissa al suolo con una specie di àncora; gli mette accanto, come a Paolo, un “messaggero di Satana che lo schiaffeggia”, “una spina nella carne” (2 Cor 12,7). Non sappiamo cosa fosse esattamente per l’Apostolo questa “spina nella carne”, ma sappiamo bene cos’è per noi! Ognuno che vuole seguire il Signore e servire la Chiesa ce l’ha. Sono situazioni umilianti dalle quali si è richiamati costantemente, talvolta notte e giorno, alla dura realtà di quello che siamo. Può essere un difetto, una malattia, una debolezza, un’impotenza, che il Signore ci lascia, nonostante tutte le suppliche; una tentazione persistente e umiliante, forse proprio una tentazione di superbia; una persona con cui si è costretti a vivere e che, nonostante la rettitudine di entrambe le parti, ha il potere di mettere a nudo la nostra fragilità, di demolire la nostra presunzione e farci perdere la calma.

 

L’umiltà non è però solo una virtù privata. C’è un’umiltà che deve risplendere nella Chiesa come istituzione e popolo di Dio. Se Dio è umiltà, anche la Chiesa deve essere umiltà; se Cristo ha servito, anche la Chiesa deve servire, e servire per amore. Per troppo tempo la Chiesa, nel suo insieme, ha rappresentato davanti al mondo la verità  di Cristo, ma forse non abbastanza l’umiltà di Cristo. Eppure è con essa, meglio che con ogni apologetica, che si placano le ostilità e i pregiudizi  nei suoi confronti e si spiana la via all’accoglimento del Vangelo.

 

C’è un episodio dei Promessi Sposi di Manzoni che contiene una profonda verità psicologica ed evangelica. Fra Cristoforo, terminato il noviziato, decide di chiedere pubblicamente perdono ai parenti dell’uomo che, prima di farsi frate, ha ucciso in duello. La famiglia si schiera in fila, formando una specie di forche caudine, in modo che il gesto risulti il più umiliante possibile per il frate e di più grande soddisfazione per l’orgoglio della famiglia. Ma quando vedono il giovane frate procedere a testa china, inginocchiarsi davanti al fratello dell’ucciso e chiedere perdono, cade la boria, sono loro a sentirsi confusi e a chiedere scusa, finché  alla fine tutti gli si stringono intorno per baciargli la mano e raccomandarsi alle sue preghiere[15]. Sono i miracoli dell’umiltà.

 

Nel profeta Sofonia  Dio dice: “Lascerò in mezzo a te un popolo umile e povero che confiderà nel nome del Signore” (Sof 3,12). Questa parola è ancora attuale e forse anche da essa dipenderà il successo dell’evangelizzazione nella quale la Chiesa è impegnata.

 

Adesso sono io che, prima di terminare, devo ricordare a me stesso una massima cara a san Francesco. Egli era solito ripetere: “Carlo  imperatore, Orlando, Oliviero, tutti i paladini riportarono una gloriosa e memorabile vittoria… Ma ci sono ora molti che, con la sola narrazione delle loro gesta, vogliono ricevere onore e gloria dagli altri uomini”[16]. Usava questo esempio per dire che i santi hanno praticato le virtù e altri cercano gloria col solo raccontarle[17].

 

Per non essere anch’io del loro numero, mi sforzo di mettere in pratica il consiglio che un antico Padre del deserto, Isacco di Ninive, dava a chi è costretto dal dovere a parlare di cose spirituali, alle quali non è ancora giunto con la sua vita: “Parlane, diceva, come uno che appartiene alla classe dei discepoli e non con autorità, dopo aver umiliato la tua anima ed esserti fatto più piccolo di ogni tuo ascoltatore”. Con questo spirito, Santo Padre, Venerabili Padri, fratelli e sorelle, ho osato parlare a voi di umiltà.

 

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NOTE

 

[1]  Fioretti, cap. X.

[2] Paradiso XI, 111.

[3] S. Bernardo di Chiaravalle, Semoni sul Cantico, XVI, 10 (PL 183,853).

[4] S. Kierkegaard, La malattia mortale,II, cap.1.  in Opere, a cura di C. Fabro, Sansoni, Firenze 1972, pp.662 s.

[5]  Ammonizioni, XIX (FF 169); cf. anche S. Bonaventura, Legenda maggiore, VI,1 (FF 1103).

[6] Considerazioni delle Sacre Stimmate, III (FF 1916).

[7] S. Agostino, Soliloqui,I,1,3; II, 1, 1 (PL 32, 870.885).

[8] S. Teresa d’Avila, Castello Interiore, VI dim., cap. 10.

[9] Il libro della B. Angela da Foligno, Quaracchi, 1985, p. 737.

[10] Apophtegmata Patrum, Antonio 7: PG 65, 77.

[11] Imitazione di Cristo, II, cap. 10.

[12] Ammonizioni,I (FF 144).e

[13] Lettera a tutto l’Ordine (FF 221)

[14] B. Pascal, Pensieri, n. 150 Br.

[15] A. Manzoni,  I Promessi Sposi, cap. IV.

[16] Ammonizioni VI (FF 155)

 

[17] Celano, Vita seconda, 72 (FF 1626)


FRANCESCO D'ASSISI

E LA RIFORMA DELLA CHIESA PER VIA DI SANTITÀ

Prima predica di avvento - 6 dicembre 2013

 

 

 

Santo Padre, Venerabili Padri, fratelli e sorelle, l’intento di queste tre meditazioni di Avvento è di prepararci al Natale in compagnia di Francesco d’Assisi. Di lui, in questa prima meditazione, vorrei mettere in luce la natura del suo ritorno al Vangelo. Il teologo Yves Congar, nel suo studio su “Vera e falsa riforma nella Chiesa” vede in Francesco l’esempio più chiaro di riforma della Chiesa per via di santità[1]. Vorremmo cercare di capire in che è consistita la sua riforma per via di santità e cosa il suo esempio comporta in ogni epoca della Chiesa, compresa la nostra.

 

1. La conversione di Francesco

 

Per capire qualcosa dell’avventura di Francesco bisogna partire dalla sua conversione. Di tale evento esistono, nelle fonti, diverse descrizioni con notevoli differenze tra di loro. Per fortuna abbiamo una fonte assolutamente affidabile che ci dispensa dallo scegliere tra le varie versioni. Abbiamo la testimonianza di Francesco stesso nel suo Testamento, la sua ipsissima vox, come si dice delle parole sicuramente di Cristo riportate nel Vangelo. Dice:

 

Il Signore dette a me, frate Francesco, d’incominciare a fare penitenza così: quando ero nei peccati mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi e il Signore stesso mi condusse tra loro e usai con essi misericordia. E allontanandomi da essi, ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato in dolcezza d’animo e di corpo. E di poi, stetti un poco e uscii dal mondo.

 

È su questo testo che giustamente si basano gli storici, ma con un limite per loro invalicabile. Gli storici, anche i meglio intenzionati e più rispettosi della peculiarità della vicenda di Francesco, come è stato, tra gli italiani Raoul Manselli, non riescono a cogliere il perché ultimo del suo radicale cambiamento. Si arrestano –e giustamente per rispetto al loro metodo – sulla soglia, parlando di un “segreto di Francesco”, destinato a rimanere tale per sempre.

 

Quello che si riesce a costatare, dicono gli storici, è la decisione di Francesco di cambiare il suo stato sociale. Da appartenente alla classe agiata, che contava nella città per nobiltà o ricchezza, egli ha scelto di collocarsi all’estremità opposta, condividendo la vita degli ultimi, di quelli che non contavano nulla, i cosiddetti “minori”, afflitti da ogni genere di povertà.

 

Gli storici insistono giustamente sul fatto che Francesco, all’inizio, non ha scelto la povertà  e tanto meno il pauperismo; ha scelto i poveri! Il cambiamento è motivato più dal comandamento; “Ama il prossimo tuo come te stesso”, che non dal consiglio: “Se vuoi essere perfetto, va’, vendi tutto quello che hai e dallo ai poveri, poi vieni e seguimi”. Era la compassione per la povera gente, più che la ricerca della propria perfezione che lo muoveva, la carità più che la povertà.

 

Tutto questo è vero, ma non tocca ancora il fondo del problema. È l’effetto del cambiamento, non la sua causa. La scelta vera è molto più radicale: non si trattò di scegliere tra ricchezza e povertà, né tra ricchi e poveri, tra l’appartenenza a una classe piuttosto che a un’altra, ma di scegliere tra se stesso e  Dio, tra salvare la propria vita o perderla per il Vangelo.

 

Ci sono stati alcuni (per esempio, in tempi a noi vicini, Simone Weil) che sono arrivati a Cristo partendo dall’amore per i poveri e vi sono stati altri che sono arrivati ai poveri partendo dall’amore per Cristo. Francesco appartiene a questi secondi. Il motivo profondo della sua conversione non è di natura sociale, ma evangelica.  Gesú  ne aveva formulato la legge una volta per tutte con una delle frasi più solenni e più sicuramente autentiche del Vangelo:

 

“Se uno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vorrà salvare la sua vita, la perderà; ma chi avrà perduto la sua vita per amor mio, la troverà” (Mt 14, 24-25).

 

Francesco, baciando il lebbroso, ha rinnegato se stesso in quello che era più  “amaro” e ripugnante alla sua natura. Ha fatto violenza a se stesso. Il particolare non è sfuggito al suo primo biografo che descrive così l’episodio:

 

“Un giorno gli si parò innanzi un lebbroso: fece violenza a se stesso, gli si avvicinò e lo baciò.  Da quel momento decise di disprezzarsi sempre più, finché per la misericordia del Redentore ottenne piena vittoria”[2].

 

Francesco non andò di sua spontanea volontà dai lebbrosi, mosso da umana e religiosa compassione. “Il Signore, scrive, mi condusse tra loro”. È su questo piccolo dettaglio che gli storici non sanno –né potrebbero – dare un giudizio, ed è invece all’origine di tutto. Gesù aveva preparato il suo cuore in modo che la sua libertà, al momento giusto, rispondesse alla grazia. A questo erano serviti il sogno di Spoleto e la domanda se preferiva servire il servo o il padrone, la malattia, la prigionia a Perugia e quell’inquietudine strana che non gli permetteva più di trovare gioia nei divertimenti e gli faceva ricercare luoghi solitari.

 

Pur senza pensare che si trattasse di Gesú in persona sotto le sembianze di un lebbroso (come più tardi si cercò di fare, ripensando al caso analogo della vita di san Martino di Tours[3]), in quel momento il lebbroso per Francesco rappresentava a tutti gli effetti Gesú. Non aveva egli detto: “L’avete fatto a me”? In quel momento ha scelto tra se e Gesú. La conversione di Francesco è della stessa  natura di quella di Paolo. Per Paolo, a un certo punto, quello che prima era stato un “guadagno” cambiò segno e divenne “perdita”, “a motivo di Cristo” (Fil 3, 5 ss); per Francesco quello che era stato amaro si convertì in dolcezza, anche qui “a motivo di Cristo”. Dopo questo momento, entrambi possono dire: “Non sono più io che vivo, Cristo vive in me”.

 

Tutto questo ci obbliga a correggere una certa immagine di Francesco resa popolare dalla letteratura posteriore e accolta da Dante nella Divina Commedia. La famosa metafora delle nozze di Francesco con Madonna Povertà che ha lasciato tracce profonde nell’arte e nella poesia francescane può essere deviante. Non ci si innamora di una virtù, fosse pure la povertà; ci si innamora di una persona. Le nozze di Francesco sono state, come quelle di altri mistici, uno sposalizio con Cristo.

 

Ai compagni che gli chiedevano se intendeva prendere moglie, vedendolo una sera stranamente assente e luminoso in volto, il giovane Francesco rispose: “Prenderò la sposa più nobile e bella che abbiate mai vista”. Questa risposta viene di solito male interpretata. Dal contesto appare chiaro che la sposa non è la povertà, ma il tesoro nascosto e la perla preziosa, cioè  Cristo. “Sposa, commenta il Celano che riferisce l’episodio, è la vera religione che egli abbracciò; e il regno dei cieli è il tesoro nascosto che egli cercò”[4].

 

Francesco non sposò la povertà e neppure i poveri; sposò Cristo e fu per amor suo che sposò, per così dire “in seconde nozze” Madonna povertà. Così sarà sempre nella santità cristiana. Alla base dell’amore per la povertà e per i poveri, o vi è l’amore per Cristo, oppure i poveri saranno in un modo o nell’altro strumentalizzati e la povertà diventerà facilmente un fatto polemico contro la Chiesa, o una ostentazione di maggiore perfezione rispetto ad altri nella Chiesa, come avvenne, purtroppo, anche tra alcuni dei seguaci del Poverello. Nell’uno e nell’altro caso, si fa della povertà la peggiore forma di ricchezza, quella della propria giustizia.

 

2. Francesco e la riforma della Chiesa

 

Come avvenne che da un evento così intimo e personale come fu la conversione del giovane Francesco, prese avvio un movimento che cambiò a suo tempo il volto della Chiesa e ha inciso così fortemente nella storia, fino ai nostri giorni?

 

Bisogna dare uno sguardo alla situazione del tempo. All’epoca di Francesco la riforma della Chiesa era un’esigenza avvertita più o meno consapevolmente da tutti. Il corpo della Chiesa viveva tensioni e lacerazioni profonde. Da una parte c’era la Chiesa istituzionale –papa, vescovi, alto clero- logorata dai suoi perenni conflitti e dalle sue troppo strette alleanze con l’impero. Una Chiesa avvertita come lontana, impegnata in vicende troppo al di sopra degli interessi della gente.  Venivano poi i grandi ordini religiosi, spesso fiorenti per cultura e spiritualità dopo le varie riforme del secolo XI, tra qui quella Cistercense, ma fatalmente identificati con i grandi proprietari terrieri, i feudatari del tempo, vicini e nello stesso tempo remoti anch’essi, per problemi e tenore di vita, dal popolo minuto.

 

Dalla parte opposta c’era una società che dalle campagne cominciava a emigrare verso le città in cerca di maggiore libertà dalle varie servitù. Questa parte della società identificava la Chiesa con le classi dominanti da cui sentiva il bisogno di affrancarsi. Perciò si schierava volentieri con quelli che la contraddicevano e la combattevano: eretici, gruppi radicali e pauperistici, mentre simpatizzava con il basso clero spesso non all’altezza spirituale dei prelati, ma più vicino al popolo.

 

C’erano dunque forti tensioni che ognuno cercava di sfruttare a proprio vantaggio. La Gerarchia cercava di rispondere a queste tensioni migliorando la propria organizzazione e reprimendo gli abusi, sia al suo interno (lotta alla simonia e al concubinato dei preti) sia all’esterno nella società. I gruppi ostili cercavano invece di fare esplodere le tensioni, radicalizzando il contrasto con la Gerarchia dando origine a movimenti più o meno scismatici. Tutti inalberavano contro la Chiesa l’ideale della povertà e semplicità evangelica facendo di esso un’arma polemica, più che un ideale spirituale da vivere in umiltà, arrivando a mettere in discussione anche il ministero della Chiesa, il sacerdozio e il papato.

 

Noi siamo abituati a vedere Francesco come l’uomo provvidenziale che coglie queste istanze popolari di rinnovamento, le disinnesca da ogni carica polemica e le riporta o le attua nella Chiesa in profonda comunione e sottomissione ad essa. Francesco dunque come una specie di mediatore tra gli eretici ribelli e la Chiesa istituzionale. In un noto manuale di storia della Chiesa così è presentata la sua missione:

 

“Siccome la ricchezza e la potenza della Chiesa apparivano spesso come una fonte di gravi mali e gli eretici del tempo ne traevano argomento per le principali accuse contro di essa, in alcune anime pie si destò il nobile desiderio di ripristinare la vita povera di Gesù e della Chiesa primitiva, per poter così più efficacemente influire sul popolo con la parola e l’esempio” [5].

 

Tra queste anime viene collocato naturalmente in primo luogo, insieme con san Domenico, Francesco d’Assisi. Lo storico protestante Paul Sabatier, pur tanto benemerito degli studi francescani, ha reso quasi canonica tra gli storici, e non solo tra quelli laici e protestanti, la tesi secondo cui il cardinale Ugolino (il futuro Gregorio IX) avrebbe inteso catturare Francesco per la Curia, addomesticando la carica critica e rivoluzionaria del suo movimento. In pratica è il tentativo di fare di Francesco, un precursore di Lutero, cioè un riformatore per via di critica, anziché di santità.

 

Non so se questa volontà di strumentalizzarlo si possa attribuire a qualcuno dei grandi protettori e amici di Francesco. Pare difficile attribuirla al card. Ugolino e ancora meno a Innocenzo III, di cui è nota l’azione riformatrice e l’appoggio dato a varie forme nuove di vita spirituale sorte al suo tempo, compresi appunto i frati minori, i domenicani, gli umiliati milanesi. Una cosa, in ogni caso, è assolutamente certa: quell’intenzione non ha mai sfiorato la mente di Francesco. Egli non pensò mai di essere chiamato a riformare la Chiesa.

 

Bisogna stare attenti a non tirare conclusioni sbagliate dalle famose parole del Crocifisso di San Damiano “Va’, Francesco e ripara la mia Chiesa che, come vedi, va in rovina”. Le fonti stesse ci assicurano che egli intese quelle parole nel senso assai modesto di dover riparare materialmente la chiesetta di San Damiano. Furono i discepoli e i biografi che interpretarono – e, bisogna dire, non a  torto – quelle parole come riferite alla Chiesa istituzione e non solo alla Chiesa edificio. Lui rimase sempre alla sua interpretazione letterale e infatti continuò a riparare altre chiesette dei dintorni di Assisi che erano in rovina.

 

Anche il sogno in cui Innocenzo III avrebbe visto il Poverello sostenere con la sua spalla la Chiesa cadente del Laterano non dice nulla di più. Supposto che il fatto sia storico (un episodio analogo viene infatti narrato anche a proposito di San Domenico), il sogno fu del papa, non di Francesco! Egli non si è mai visto come lo vediamo noi oggi nell’affresco di Giotto. Questo significa essere riformatore per via di santità: esserlo, senza saperlo!

 

3. Francesco e il ritorno al Vangelo

 

Se non ha voluto essere un riformatore, cosa allora ha voluto essere e fare Francesco? Anche su questo abbiamo la fortuna di avere la testimonianza diretta del Santo nel suo Testamento:

 

“E dopo che il Signore mi donò dei frati, nessuno mi mostrava che cosa dovessi fare; ma lo stesso Altissimo mi rivelò che dovevo vivere secondo la forma del santo Vangelo. Ed   io con poche parole e semplicemente lo feci scrivere, e il signor Papa me lo confermò”.

 

Allude al momento in cui,  durante una Messa, ascoltò il brano di vangelo dove Gesù invia i suoi discepoli dicendo: “Li mandò ad annunciare il regno di Dio e a guarire i malati. E disse loro: «Non prendete nulla per il viaggio: né bastone, né sacca, né pane, né denaro, e non abbiate tunica di ricambio” (Lc 9, 2-3)[6]. Fu una rivelazione folgorante di quelle che orientano un’intera vita. Da quel giorno gli fu chiara la sua missione: un ritorno semplice e radicale al vangelo reale, quello vissuto e predicato da Gesù. Ripristinare nel mondo la forma e lo stile di vita di Gesù e degli apostoli descritto nei vangeli. Scrivendo la Regola per i suoi frati comincerà così:

 

“La regola e la vita dei frati minori è questa, cioè osservare il santo Vangelo del Signore nostro Gesù Cristo”.

 

Francesco non teorizzò questa sua scoperta, facendone il programma per la riforma della Chiesa. Egli realizzò in sé la riforma e così indicò tacitamente alla Chiesa l’unica via per uscire dalla crisi: riaccostarsi al vangelo, riaccostarsi agli uomini e in particolare agli umili de ai poveri.

 

Questo ritorno al Vangelo si riflette anzitutto nella predicazione di Francesco. È sorprendente, ma tutti lo hanno notato: il Poverello parla quasi sempre di “fare penitenza”. Da allora in poi, narra il Celano, con grande fervore ed esultanza, egli cominciò a predicare la penitenza, edificando tutti con la semplicità della sua parola e la magnificenza del suo cuore. Dovunque andava, Francesco diceva, raccomandava, supplicava che facessero penitenza[7].

 

Che cosa intendeva Francesco con questa parola che gli stava tanto a cuore? A questo proposito siamo caduti (almeno io sono caduto per molto tempo) in errore. Abbiamo ridotto il messaggio di Francesco a una semplice esortazione morale, a un battersi il petto, affliggersi e mortificarsi per espiare i peccati, mentre esso ha tutta la novità e il l’ampio respiro del vangelo di Cristo. Francesco non esortava a fare “penitenze”, ma a fare “penitenza” (al singolare!) che, vedremo, è tutt’un’altra cosa.

 

Il Poverello, salvi i pochi casi che conosciamo, scriveva in latino. E cosa troviamo nel testo latino, del Testamento, quando scrive: “Il Signore diede a me, frate Francesco, così di cominciare a fare penitenza”? Troviamo l’espressione “poenitentiam agere”. Egli, si sa, amava esprimersi con le parole stesse di Gesù. E quella parola – fare penitenza -  è la parola con cui Gesù cominciò a predicare e che ripeteva in ogni città e villaggio dove si recava:

 

“Dopo che Giovanni fu messo in prigione, Gesù si recò in Galilea, predicando il vangelo di Dio e dicendo: Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo” (Mc 1,15).

 

La parola che oggi si traduce con “convertitevi” o “pentitevi”, nel testo della Volgata usato dal Poverello, suonava “poenitemini” e in Atti 2, 37 ancora più letteralmente “poenitentiam agite”, fate penitenza. Francesco non ha fatto altro che rilanciare il grande appello alla conversione con cui si apre la predicazione di Gesú nel Vangelo e quella degli apostoli il giorno di Pentecoste.

 

Francesco fece a suo tempo quello che al tempo del Concilio Vaticano II si intendeva con il motto: “abbattere i bastioni”: rompere l’isolamento della Chiesa, riportarla a contatto con la gente. Uno dei fattori di oscuramento del vangelo era la trasformazione dell’autorità intesa come servizio, in autorità intesa come potere che aveva prodotto infiniti conflitti dentro e fuori la Chiesa. Francesco, per conto suo, risolve il problema in senso evangelico. Nel suo Ordine, novità assoluta, i superiori si chiameranno ministri, cioè servi, e tutti gli altri frati, cioè fratelli.

 

Un altro muro di separazione tra la Chiesa e il popolo era la scienza e la cultura di cui il clero e i monaci avevano in pratica il monopolio. Francesco lo sa e perciò prende la posizione drastica che sappiamo su questo punto. Egli non ce l’ha con la scienza-conoscenza, ma con la scienza-potere; quella che privilegia chi sa leggere su chi non sa leggere e gli permette di comandare altezzosamente al fratello: “Portami il breviario!”. Durante il famoso capitolo delle stuoie ad alcuni suoi frati che volevano spingerlo ad adeguarsi all’atteggiamento degli “ordini” colti del tempo, rispose con parole di fuoco che lasciarono, si legge, i frati pervasi di timore:

 

«Fratelli, fratelli miei, Dio mi ha chiamato a camminare la via della semplicità e me l’ha mostrata. Non voglio quindi che mi nominiate altre Regole, né quella di sant’Agostino, né quella di san Bernardo o di san Benedetto. Il Signore mi ha rivelato essere suo volere che io fossi un pazzo nel mondo: questa è la scienza alla quale Dio vuole che ci dedichiamo! Egli vi confonderà per mezzo della vostra stessa scienza e sapienza”[8].

 

Sempre lo stesso coerente atteggiamento. Egli vuole per sé e i suoi frati la più rigida povertà, ma, nella Regola, li esorta a “non disprezzare e a non giudicare gli uomini che vedono vestiti di abiti molli e colorati ed usare cibi e bevande delicate, ma piuttosto ciascuno giudichi e disprezzi se stesso”[9]. Sceglie di essere un illetterato, ma non condanna la scienza. Una volta assicurato che la scienza non estingua “lo spirito della santa orazione e devozione”, sarà lui stesso a permettere a frate Antonio di dedicarsi all’insegnamento della teologia e san Bonaventura non crederà di tradire lo spirito del fondatore, aprendo l’ordine agli studi nelle grandi università.

 

Yves Congar  vede in ciò una delle condizioni essenziali della “vera riforma” nella Chiesa,  la riforma, cioè, che rimane tale e non si trasforma in scisma: vale a dire la capacità di non assolutizzare la propria intuizione, ma rimanere solidale con il tutto che è la Chiesa[10]. La convinzione, dice papa Francesco, nella sua recente Esortazione apostolica Evangelii gaudium, che “il tutto è superiore alla parte”.

 

4. Come imitare Francesco

 

Che cosa dice a noi oggi  l’esperienza di Francesco? Che cosa possiamo imitare, di lui, tutti e subito? Sia quelli che  Dio chiama a riformare la Chiesa per via di santità, sia quelli che si sentono chiamati a rinnovarla per via di critica, sia quelli che egli stesso chiama a riformarla per via dell’ufficio che ricoprono? La stessa cosa da cui è cominciata l’avventura spirituale di Francesco: la sua conversione dall’io a  Dio, il suo rinnegamento di sé. È così che nascono i veri riformatori, quelli che cambiano davvero qualcosa nella Chiesa. I morti a se stessi. Meglio, quelli che decidono seriamente di morire a se stessi, perché si tratta di un’impresa che dura tutta la vita e anche oltre, se, come diceva scherzosamente santa Teresa d’Avila, il nostro amor proprio muore venti minuti dopo di noi.

 

Diceva un santo monaco ortodosso, Silvano del Monte Athos: “Per essere veramente liberi, bisogna cominciare a legare se stessi”. Uomini come questi sono liberi della libertà dello Spirito; niente li ferma e niente li spaventa più. Diventano riformatori per via di santità, e non solo per via di ufficio.

 

Ma che significa la proposta di Gesú di rinnegare se stessi? È essa ancora proponibile a un mondo che parla solo di autorealizzazione, autoaffermazione? Il rinnegamento non è mai fine a se stesso, né un ideale in sé. La cosa più importante è quella positiva: Se uno vuol venire dietro di me; è il seguire Cristo, possedere Cristo. Dire no a se stessi è il mezzo; dire sì a Cristo è il fine. Paolo la presenta come una specie di legge dello spirito: “Se con l’aiuto dello Spirito fate morire le opere della carne, vivrete” (Rom 8,13). Questo, come si vede, è un morire per vivere; è l’opposto della visione filosofica  secondo cui la vita umana è “un vivere per morire” (Heidegger).

 

Si tratta di sapere se vogliamo vivere “per noi stessi”, o “per il Signore” (cf. 2 Cor 5,15; Rom 14, 7-8). Vivere “per se stessi” significa vivere per il proprio comodo, la propria gloria, il proprio avanzamento; vivere “per il Signore” significa rimettere sempre al primo posto, nelle nostre intenzioni, la gloria di Cristo, gli interessi del Regno e della Chiesa. Ogni “ no“, piccolo o grande, detto a se stessi per amore, è un sì detto a Cristo.

 

Non si tratta però di sapere tutto sul rinnegamento cristiano, la sua bellezza e necessità; si tratta di passare all’atto, di praticarla. Un grande maestro di spirito dell’antichità diceva: “È possibile spezzare dieci volte la propria volontà in un tempo brevissimo; e vi dico come. Uno sta passeggiando e vede qual­cosa; il suo pensiero gli dice: “Guarda là”, ma lui risponde al suo pensiero: “No, non guardo”, e spezza così la propria volon­tà. Poi incontra altri che stanno sparlando di qualcuno, magari del superiore, e il suo pensiero gli dice: “Di’ anche tu quello che sai”, e spezza la sua volontà tacendo”[11].

 

Questo antico Padre porta esempi tratti tutti dalla vita monastica. Ma essi si possono aggiornare e adattare facilmente alla vita di ognuno, chierici e laici. Incontri, se non un lebbroso come Francesco, un povero che sai ti chiederà qualcosa; il tuo uomo vecchio ti spinge a passare al lato opposto della strada, e tu invece ti fai violenza e gli vai incontro, magari regalandogli solo un saluto e un sorriso, se non puoi altro. Sei stato contraddetto in una tua idea; punto sul vivo, vorresti controbattere vivacemente, taci e aspetti: hai spezzato il tuo io. Credi di aver ricevuto un torto, un trattamento, o una destinazione non adeguati ai tuoi meriti: vorresti farlo notare a tutti, chiudendoti in un silenzio di tacito rimprovero. Dici no, rompi il silenzio, sorridi e riapri il dialogo. Hai rinnegato te stesso e salvato la carità. E così via.

 

Un traguardo difficile (chi vi parla è lontano dall’esservi giunto), ma la vicenda di Francesco, ci ha mostrato cosa può nascere da un rinnegamento di sé fatto in risposta alla grazia. Il premio è la gioia di poter dire con Paolo e con Francesco: “Non sono più io che vivo, Cristo vive in me”. E sarà l’inizio della gioia e della pace, già su questa terra. Francesco, con la sua “perfetta letizia”, è l’esempio vivente  della “gioia che viene dal Vangelo”,l’ Evangelii gaudium.

 

Da parte di Francesco e mia, Pace e bene a tutti!

 

 

 

 

 

 

NOTE

 

[1] Y.Congar, Vera e falsa riforma nella Chiesa,Milano Jaka Book, 1972, p. 194.

 

[2] Celano, Vita Prima, VII, 17 (FF 348).

 

[3] Cf. Celano, Vita Seconda, V, 9 (FF 592)

 

[4] Cf. Celano, Vita prima, III, 7 (FF, 331).

 

[5] Bihhmeyer – Tuckle, II, p. 239.

 

[6] Legenda dei tre compagni VIII (FF 1431 s.).

 

[7] FF, 358; 1436 s.; 1508.

 

[8]  Legenda perugina 114 (FF 1673).

 

[9]  Regola Bollata, cap. II.

 

[10] Sulle condizioni della vera riforma, vedi Congar, op. cit. pp.  177 ss.

 

 

[11] Doroteo di Gaza, Opere spirituali, I,20 (SCH 92,p.177).



Qui sotto riportate troverete le prediche d'Avvento di p. Raniero Cantalamessa, cominciando dalla più recente:

 

"VI ANNUNCIO UNA GRANDE GIOIA"

padre Raniero Cantalamessa, OFM Cap

terza predica di avvento 2012 - 21 dicembre 2012

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IL CONCILIO VATICANO II: 50 ANNI DOPO.

Una chiave di lettura

fra RANEIRO CANTALAMESSA 

seconda predica di Avvento:  14 dicembre 2012

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L' ANNO DELLA FEDE, E IL CATECHISMO DELLA CHIESA CATTOLICA

fra RANIERO CANTALAMESSA

prima predica di avvento 2012   7 dicembre 2012


"VI ANNUNCIO UNA GRANDE GIOIA"

padre Raniero Cantalamessa, OFM Cap

terza predica di avvento 2012 - 21 dicembre 2012

 

Evangelizzare mediante la gioia

Dopo aver riflettuto sulla grazia dell’anno fede e sull’anniversario del Vaticano II, dedichiamo questa ultima meditazione di Avvento al terzo grande tema dell’anno, l’evangelizzazione. Il papa ha invitato la Chiesa a fare di questo anno l’occasione per riscoprire “la gioia dell’incontro con Cristo”, la gioia di essere cristiani. Facendomi eco di questa esortazione, parlerò di come evangelizzare attraverso la gioia. Lo faccio rimanendo il più possibile legato al tempo liturgico in atto, in modo che serva anche come preparazione al Santo Natale.

 

1. Il giubilo escatologico

Nei “vangeli dell’infanzia”, Luca, “mosso dallo Spirito Santo”, è riuscito non solo a presentarci dei fatti e dei personaggi, ma anche a ricreare l’atmosfera e lo stato d’animo con cui furono vissuti quei fatti. Uno degli elementi più evidenti di questo mondo spirituale è la gioia. La pietà cristiana non si è sbagliata, quando ha dato agli avvenimenti dell’infanzia di Gesù il nome di “misteri gaudiosi”, misteri della gioia.

 

A Zaccaria, l’angelo promette che avrà “gioia ed esultanza” per la nascita del figlio e che molti “si rallegreranno” per essa (cf Lc 1, 14). C’è un termine greco che, a partire da questo momento, ricomparirà sulla bocca dei vari personaggi come una specie di nota continua ed è il termine agallìasis che indica “il giubilo escatologico per l’irrompere del tempo messianico”. Al saluto di Maria, il bambino “esultò di gioia” nel seno di Elisabetta (Lc 1, 44), preannunciando, con ciò, la gioia dell’“amico dello sposo” per la presenza dello sposo (cf Gv 3, 29 s). Quella nota raggiunge un primo vertice nel grido di Maria: “Il mio spirito esulta (egallìasen) in Dio!” (Lc 1, 47); si diffonde nella gioia quieta degli amici e dei parenti intorno alla culla del Precursore (cf Lc 1, 58), per esplodere, infine, in tutta la sua forza, alla nascita di Cristo, nel grido degli angeli ai pastori: “Vi annuncio una grande gioia!” (Lc 2, 10).

 

Non si tratta solo di alcuni accenni sparsi alla gioia, ma piuttosto di un impeto di gioia calma e profonda che percorre i “vangeli dell’infanzia”, dall’inizio alla fine e si esprime in mille modi diversi: nello slancio con cui Maria si alza per recarsi da Elisabetta e i pastori per recarsi a vedere il Bambino, nei gesti umili e tipici della gioia che sono le visite, gli auguri, i saluti, le congratulazioni, i doni. Ma soprattutto si esprime nello stupore e nella gratitudine commossa di questi protagonisti: “Dio ha visitato il suo popolo! [...] Si è ricordato della sua santa alleanza!”. Ciò che tutti gli oranti avevano chiesto – che Dio si ricordasse delle sue promesse – ora è accaduto! I personaggi dei “vangeli dell’infanzia” sembrano muoversi e parlare nell’atmosfera di sogno cantata dal Salmo 126, il Salmo del ritorno dall’esilio:

 

“Quando il Signore ricondusse i prigionieri di Sion, ci sembrava di sognare.

Allora la nostra bocca si aprì al sorriso, la nostra lingua si sciolse in canti di gioia.

Allora si diceva tra i popoli: “Il Signore ha fatto grandi cose per loro”.

Grandi cose ha fatto il Signore per noi, ci ha colmati di gioia”.

 

Maria fa sua l’ultima espressione di questo Salmo, quando esclama: “Grandi cose ha fatto per me l’Onnipotente!”. Siamo davanti al più puro esempio di “sobria ebbrezza” dello Spirito. La loro è una vera “ebbrezza” spirituale, ma è “sobria”. Non si esaltano, non si preoccupano di avere un posto più o meno importante nell’incipiente regno di Dio. Non si preoccupano neppure di vedere la fine; Simeone, anzi, dice che ora il Signore può anche lasciare che egli se ne vada in pace, che scompaia. Quello che conta è che l’opera di Dio vada avanti, non importa se con loro o senza di loro.

 

2. Dalla liturgia alla vita

Passiamo ora dalla Bibbia e dalla liturgia alla vita. A ciò mira sempre la parola di Dio. L’intento dell’evangelista Luca non è solo di narrare, ma anche di coinvolgere gli uditori e trascinarli, come i pastori, in un corteo gioioso verso Betlemme. “Chi legge queste righe – commenta un esegeta moderno – è chiamato a condividere il giubilo; solo la comunità concelebrante dei credenti in Cristo e dei suoi fedeli può essere all’altezza di questi testi”[1].

 

Questo spiega perché i vangeli dell’infanzia hanno così poco da dire a chi cerca in essi solo la storia, e hanno invece tanto da dire a chi vi cerca anche il significato della storia, come fa il Santo Padre nel suo ultimo volume su Gesù. Vi sono tanti fatti che sono accaduti, ma non sono “storici” nel senso pregnante del termine, perché non hanno lasciato traccia nella storia, non hanno creato nulla. Gli eventi relativi alla nascita di Gesù sono fatti “storici” nel senso più forte, perché non solo sono accaduti, ma hanno inciso - e in modo determinante - nella storia del mondo.

 

Ma torniamo al tema della gioia. Da che cosa nasce la gioia? La sua fonte ultima è Dio, la Trinità. Ma noi siamo nel tempo e Dio è nell’eternità; come può scorrere la gioia tra questi due piani così distanti? Difatti, se interroghiamo meglio la Bibbia, scopriamo che la scaturigine immediata della gioia è nel tempo: è l’agire di Dio nella storia. Dio che agisce! Nel punto in cui “cade” un’azione divina, si produce come una vibrazione e un’ondata di gioia che si propaga, poi, per generazioni, anzi – trattandosi di azioni consegnate nella Rivelazione –, per sempre.

 

L’agire di Dio è, ogni volta, un miracolo che riempie di stupore il cielo e la terra: “Esultate, cieli, perché il Signore ha agito – esclama il profeta –; giubilate, profondità della terra!” (Is 44, 23; 49, 13). La gioia che erompe dal cuore di Maria e degli altri testimoni degli inizi della salvezza si fonda tutta su questo motivo: Dio ha soccorso Israele! Dio ha agito! Ha fatto cose grandi!

 

Come può, questa gioia per l’agire di Dio, raggiungere la Chiesa di oggi e contagiarla? Lo fa, anzitutto, per via di memoria, nel senso che la Chiesa “ricorda” le opere meravigliose di Dio a suo favore. La Chiesa è invitata a fare sue le parole della Vergine: “Grandi cose ha fatto per me l’Onnipotente”. Il Magnificat è il cantico che Maria ha intonato per prima, come corifea, e ha lasciato alla Chiesa perché lo prolunghi nei secoli. Grandi cose ha fatto, in realtà, il Signore per la Chiesa, in questi venti secoli!

 

Noi abbiamo, in un certo senso, più ragioni oggettive per gioire, di quante ne avessero Zaccaria, Simeone, i pastori e, più in generale tutta la Chiesa nascente. Essa partiva “portando la semente da gettare”, come dice il Salmo 126 ricordato sopra; aveva ricevuto delle promesse: “Io sono con voi!” e delle consegne: “Andate in tutto il mondo!”. Noi abbiamo visto il compimento. Il seme è cresciuto, l’albero del Regno è divenuto immenso. La Chiesa di oggi è come il seminatore che “torna con giubilo, portando i suoi covoni”.

 

Quante grazie, quanti santi, quanta sapienza di dottrina e ricchezza di istituzioni, quanta salvezza operata in lei e attraverso di lei! Quale parola di Cristo non ha trovato il suo perfetto compimento? Ha trovato certo compimento la parola: “Nel mondo avrete tribolazione” (Gv 16, 33), ma l’ha trovato anche la parola: “Le porte degli inferi non prevarranno!” (Mt 16, 18).

 

Con quanta ragione la Chiesa può fare suo, dinanzi alle schiere senza numero dei suoi figli, lo stupore dell’antica Sion e dire: “Chi mi ha generato costoro? Io ero priva di figli e sterile; questi chi li ha allevati?” (Is 49, 21). Chi, guardando indietro con gli occhi della fede, non vede adempiute perfettamente nella Chiesa le parole profetiche rivolte alla nuova Gerusalemme ricostruita dopo l’esilio: “Alza gli occhi intorno e guarda: tutti costoro si sono radunati, vengono a te. I tuoi figli vengono da lontano [...]. Le tue porte saranno sempre aperte, [...] per lasciare introdurre da te le ricchezze dei popoli” (Is 60, 4.11).

 

Quante volte la Chiesa ha dovuto allargare, in questi venti secoli – anche se non sempre ciò è avvenuto prontamente e senza resistenze –, lo “spazio della sua tenda”, cioè la capacità di accoglienza, per far entrare le ricchezze umane e culturali dei diversi popoli! A noi, figli della Chiesa che ci nutriamo “dall’abbondanza del suo seno”, è rivolto l’invito del profeta a rallegrarci per la Chiesa, a “sfavillare di gioia per essa”, dopo aver partecipato al suo lutto (cf Is 66, 10).

 

La gioia per l’agire di Dio raggiunge, dunque, noi credenti di oggi per via di memoria, perché vediamo le cose grandi che Dio ha fatto per noi in passato. Ma ci raggiunge anche in un altro modo non meno importante: per via di presenza, perché constatiamo che anche ora, al presente, Dio agisce in mezzo a noi, nella Chiesa.

 

Se la Chiesa di oggi vuole ritrovare, in mezzo a tutte le angustie e le tribolazioni che la stringono, le vie del coraggio e della gioia, deve aprire bene gli occhi su ciò che Dio sta compiendo oggi stesso in lei. Il dito di Dio, che è lo Spirito Santo, sta scrivendo ancora nella Chiesa e nelle anime e sta scrivendo storie meravigliose di santità, tali che un giorno – quando sarà scomparso nel nulla tutto il negativo e il peccato faranno, forse, guardare alla nostra epoca con stupore e santa invidia. Chiudiamo forse gli occhi, così facendo, ai tanti mali che affliggono la Chiesa e ai tradimenti di tanti suoi ministri? No, ma dal momento che il mondo e i suoi media non mettono in risalto, della Chiesa, che queste cose, è bene una volta sollevare lo sguardo e vedere anche il lato luminoso di essa, la sua santità.

 

In ogni epoca – anche nella nostra – lo Spirito dice alla Chiesa, come al tempo del Deuteroisaia: “Ora ti faccio udire cose nuove e segrete che tu nemmeno sospetti. Ora sono create e non da tempo” (Is 48, 6-7). Non è una “cosa nuova e segreta” questo soffio potente dello Spirito che rianima il popolo di Dio e suscita in mezzo ad esso carismi di ogni genere, ordinari e straordinari? Questo amore per la parola di Dio? Questa partecipazione attiva dei laici alla vita della Chiesa e all’evangelizzazione? L’impegno costante del magistero e di tante organizzazioni a favore dei poveri e dei sofferenti e l’anelito a ricomporre l’unità spezzata del Corpo di Cristo? In quale epoca passata la Chiesa ha avuto una tale serie di Sommi Pontefici dotti e santi come da un secolo e mezzo a questa parte e tanti martiri della fede?

 

3. Un diverso rapporto tra gioia e dolore

Dal piano ecclesiale passiamo al piano esistenziale e personale. Qualche anno fa ci fu una campagna promossa dall’ala militante dell’ateismo, il cui slogan pubblicitario, affisso sui mezzi di trasporto pubblico di Londra, diceva: “Dio probabilmente non esiste. Dunque smetti di tormentarti e goditi la vita”: There’s probably no God. Now stop worrying and enjoy your life”.

 

L’elemento più insidioso di questo slogan non è la premessa “Dio non esiste” (che è tutta da dimostrare), ma la conclusione: “Goditi la vita!” Il messaggio sottinteso è che la fede in Dio impedisce di godere la vita, è nemica della gioia. Senza di essa ci sarebbe più felicità nel mondo! Bisogna dare una risposta a questa insinuazione che tiene lontani dalla fede soprattutto i giovani.

 

Gesù ha operato, a proposito della gioia, una rivoluzione di cui è difficile esagerare la portata e che ci può essere di grande aiuto nell’evangelizzazione.  È un pensiero che credo di avere già espresso in questa stessa sede, ma l’argomento lo richiede. Esiste un’esperienza umana universale: in questa vita piacere e dolore si susseguono con la stessa regolarità con cui, al sollevarsi di un’onda nel mare, segue un avvallamento e un vuoto che risucchia indietro il naufrago. “Un non so che di amaro - ha scritto il poeta pagano Lucrezio -  sorge dall’intimo stesso di ogni piacere e ci angoscia in mezzo alle delizie”[2]. L’uso della droga, l’abuso del sesso, la violenza omicida, sul momento danno l’ebbrezza del piacere, ma conducono alla dissoluzione morale, e spesso anche fisica, della persona.

 

Cristo ha ribaltato il rapporto tra piacere e dolore. Egli “in cambio della gioia che gli era posta innanzi, si sottomise alla croce” (Eb 12,2). Non più un piacere che termina in sofferenza, ma una sofferenza  che porta alla vita e alla gioia. Non si tratta solo di un diverso susseguirsi delle due cose; è la gioia, in questo modo, ad avere l’ultima parola, non la sofferenza, e una gioia che durerà in eterno. “Cristo risuscitato dai morti non muore più; la morte non ha più potere su di lui” (Rom 6,9).  La croce termina con il Venerdì Santo, la beatitudine e la gloria della Domenica di risurrezione si prolungano in eterno.

 

Questo nuovo rapporto tra sofferenza e piacere si riflette perfino nel modo di scandire il tempo della Bibbia. Nel calcolo umano, il giorno inizia con la mattina e termina con la notte; per la Bibbia comincia con la notte e termina con il giorno: “E fu sera e fu mattina: primo giorno”, recita il racconto della creazione (Gen 1,5). Anche per la liturgia, la solennità comincia con i vespri della vigilia. Che significa questo? Che senza Dio, la vita è un giorno che termina nella notte; con Dio, è una notte (a volte, una “notte oscura”), ma termina nel giorno, e un giorno senza tramonto.

 

Dobbiamo però prevenire una facile obiezione: la gioia è dunque solo per dopo la morte? Questa vita non è, per i cristiani, che una “valle di lacrime”? Al contrario, nessuno sperimenta in questa vita la vera gioia quanto i veri credenti. Si narra di un santo che un giorno gridò a Dio: “Basta con la gioia! Il mio cuore non ne può contenere di più”. I credenti, esorta l’Apostolo sono “spe gaudentes”, lieti nella speranza (Rom 12, 12), il che non significa solo che “sperano di essere felici” (s’intende, nell’al di là), ma anche che “sono felici di sperare”, felici già ora, grazie alla speranza.

 

La gioia cristiana è interiore; non viene dal di fuori, ma dal di dentro, come certi laghi alpini che si alimentano, non da un fiume che vi si getta dall’esterno, ma da una sorgente che zampilla nel suo stesso fondo. Nasce dall’agire misterioso e attuale di Dio nel cuore dell’uomo in grazia. Può far sì perciò che si abbondi di gioia anche nelle tribolazioni (cf 2 Cor 7, 4). È “frutto dello Spirito” (Gal 5, 22; Rom 14, 17) e si esprime in pace del cuore, pienezza di senso, capacità di amare e di lasciarsi amare e soprattutto in speranza, senza la quale non ci può essere gioia.

 

Nel 1972 il Consiglio d’Europa, su proposta di Herbert von Karajan, adottò come inno ufficiale dell’Europa unita l’inno alla gioia che conclude la Nona Sinfonia di Beethoven. Si tratta certamente di uno dei vertici della musica mondiale, ma la gioia cantata in esso è una gioia vagheggiata, non realizzata; è un grido che si leva dal cuore umano, più che una risposta ad esso.

 

Nell’ode di Schiller, da cui è tratto il testo dell’inno, si leggono parole inquietanti: “Chi ha avuto la gioia di possedere un amico o una buona moglie, chi ha conosciuto, non fosse che per un’ora sola, cos’è l’amore, questi si accosti pure; ma chi non ha conosciuto nulla di tutto ciò, ebbene che si allontani, piangendo, dalla nostra cerchia”. Come si vede, la gioia che gli uomini “bevono dai seni della natura” non è per tutti, ma solo per alcuni privilegiati della vita.

 

Siamo ben lontani dal linguaggio di Gesù che dice: “Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò” (Mt 11, 28). Il vero inno cristiano alla gioia è il Magnificat di Maria. Esso parla di una esultanza (agalliasis) dello spirito per quello che Dio ha fatto in lei e fa per tutti gli umili e gli affamati della terra.

 

4. Testimoniare la gioia

Questa la gioia che dobbiamo testimoniare. Il mondo cerca la gioia. “Al solo sentirla nominare – scrive sant’Agostino – tutti si drizzano e ti guardano, per così dire, nelle mani, per vedere se mai tu sia in grado di dare qualcosa al loro bisogno”[3]. Tutti vogliamo essere felici. È la cosa che accomuna tutti, buoni e cattivi. Chi è buono, è buono per essere felice; chi è cattivo non sarebbe cattivo, se non sperasse di potere, con ciò, essere felice[4]. Se tutti amiamo la gioia è perché, in qualche modo misterioso, l’abbiamo conosciuta; se infatti non l’avessimo conosciuta – se non fossimo fatti per essa –, non l’ameremmo[5]. Questa nostalgia della gioia è il lato del cuore umano naturalmente aperto a ricevere il “lieto messaggio”.

 

Quando il mondo bussa alle porte della Chiesa – perfino quando lo fa con violenza e con ira – è perché cerca la gioia. I giovani soprattutto cercano la gioia. Il mondo intorno a loro è triste. La tristezza, per così dire, ci prende alla gola, a Natale più che nel resto dell’anno. Non è una tristezza che dipende dalla mancanza di beni materiali perché è molto più evidente nei paesi ricchi che in quelli poveri.

 

In Isaia leggiamo queste parole, rivolte al popolo di Dio: “Hanno detto i vostri fratelli che vi odiano e vi respingono a causa del mio nome: Mostri il Signore la sua gloria e voi fateci vedere la vostra gioia!” (Is 66, 5). La stessa sfida è rivolta, silenziosamente, al popolo di Dio, anche oggi. Una Chiesa malinconica e timorosa non sarebbe, perciò, all’altezza del suo compito; non potrebbe rispondere alle attese dell’umanità e soprattutto dei giovani.

 

La gioia è l’unico segno che anche i non credenti sono in grado di recepire e che può metterli seriamente in crisi. Non tanto i ragionamenti e i rimproveri. La testimonianza più bella che una sposa può dare al suo sposo è un volto che mostra la gioia, perché esso dice, da solo, che egli è stato capace di riempirle la vita, di renderla felice. Questa è anche la testimonianza più bella che la Chiesa può rendere al suo Sposo divino.

 

San Paolo, rivolgendo ai cristiani di Filippi quell’invito alla gioia che dà il tono a tutta la terza settimana di Avvento: “Rallegratevi nel Signore sempre, ve lo ripeto ancora, rallegratevi!”, spiega anche come si può testimoniare, nella pratica, questa allegrezza: “La vostra affabilità – dice – sia nota a tutti gli uomini” (Fil 4, 4-5). La parola “affabilità” traduce qui un termine greco (epieikès) che indica tutto un complesso di atteggiamenti fatto di clemenza, indulgenza, capacità di saper cedere, di non essere puntigliosi. (È lo stesso vocabolo da cui deriva la parola epicheia, usata nel diritto!).

 

I cristiani testimoniano, perciò, la gioia quando mettono in pratica queste disposizioni; quando, evitando ogni acredine e inutile risentimento nel dialogo con il mondo e tra loro, sanno irradiare fiducia, imitando, in tal modo, Dio, che fa piovere la sua acqua anche sugli ingiusti. Chi è felice, in genere, non è amaro, non sente il bisogno di puntualizzare tutto e sempre; sa relativizzare le cose, perché conosce qualcosa che è troppo più grande. Paolo VI, nella sua “Esortazione apostolica sulla gioia”, scritta negli ultimi anni del suo pontificato, parla di uno “sguardo positivo sulle persone e sulle cose, frutto d’uno spirito umano illuminato e dello Spirito Santo”[6].

 

Anche dentro la Chiesa, non solo verso quelli di fuori, c’è bisogno vitale della testimonianza della gioia. San Paolo diceva di sé e degli altri apostoli: “Noi non intendiamo fare da padroni sulla vostra fede, ma siamo i collaboratori della vostra gioia” (2 Cor 1, 24). Che splendida definizione del compito dei pastori nella Chiesa! Collaboratori della gioia: coloro che infondono sicurezza alle pecorelle del gregge di Cristo, i valorosi capitani che, con il solo loro sguardo tranquillo, rincuorano i soldati impegnati nella lotta.

 

In mezzo alle prove e alle calamità che affliggono la Chiesa, specialmente in alcune parti del mondo, i pastori possono ripetere, anche oggi, quelle parole che Neemia, un giorno, dopo l’esilio, rivolse al popolo d’Israele affranto e in lacrime: “Non fate lutto e non piangete [...], perché la gioia del Signore è la vostra forza!” (Ne 8, 9-10).

 

Che la gioia del Signore, Santo Padre, Venerabili Padri, fratelli e sorelle, sia davvero, la nostra forza, la forza della Chiesa. Buon Natale!

 

NOTE

[1] H. Schürmann, Il Vangelo di Luca, , I, Paideia, Brescia 1983, p. 172.

[2] Lucrezio, De rerum natura, IV, 1129 s.

[3] Agostino, De ordine, I, 8, 24.

[4] Cf Id., Sermone 150, 3, 4 (PL 38, 809).

[5] Cf Id., Confessioni, X, 20.

[6] Paolo VI, Gaudete in Domino, in “L’Osservatore Romano”, 17 maggio 1975.


IL CONCILIO VATICANO II: 50 ANNI DOPO.

Una chiave di lettura

p. RANEIRO CANTALAMESSA

seconda predica di Avvento:  14 dicembre 2012

 

 

1. Il Concilio: l’ermeneutica della rottura e quella della continuità

In questa meditazione vorrei riflettere sul secondo grande motivo di celebrazione di questo anno: il cinquantesimo anniversario dell’inizio del concilio Vaticano II.

 

Negli ultimi decenni si sono moltiplicati i tentativi di tracciare un bilancio dei risultati del concilio Vaticano II [1]. Non è il caso di proseguire in questa linea, né, d’altra parte, il tempo a disposizione lo permetterebbe. Parallelamente a queste letture analitiche, c’è stato, fin dagli anni stessi del Concilio, il tentativo di una valutazione sintetica, la ricerca, in altre parole, di una chiave di lettura dell’evento conciliare. Io vorrei inserirmi in questo sforzo e tentare, addirittura, una lettura delle diverse chiavi di lettura.

 

Esse sono state sostanzialmente tre: aggiornamento, rottura, novità nella continuità. Nell’annunciare al mondo il concilio Giovanni XXIII usò ripetutamente la parola “aggiornamento”, che, grazie a lui, è entrata nel vocabolario universale. Nel discorso di apertura del Concilio diede una prima spiegazione di ciò che intendeva con questo termine: “Il ventunesimo Concilio Ecumenico vuole trasmettere integra, non sminuita, non distorta, la dottrina cattolica […].Però noi non dobbiamo soltanto custodire questo prezioso tesoro, come se ci preoccupassimo della sola antichità, ma, alacri, senza timore, dobbiamo continuare nell’opera che la nostra epoca esige, proseguendo il cammino che la Chiesa ha percorso per quasi venti secoli […]. Occorre che questa dottrina certa ed immutabile, alla quale si deve prestare un assenso fedele, sia approfondita ed esposta secondo quanto è richiesto dai nostri tempi”[2].

 

A mano a mano però che i lavori e le sessioni del Concilio progredivano, si delinearono due schieramenti opposti a seconda che, delle due esigenze espresse dal papa, si accentuava la prima o la seconda: cioè la continuità con il passato o la novità rispetto ad esso. In seno a questi ultimi, la parola aggiornamento finì per essere sostituita dalla parola rottura. Ma con uno spirito e con intenti ben diversi, a seconda del proprio orientamento. Per l’ala cosiddetta progressista, si trattava di una conquista da salutare con entusiasmo; per il fronte opposto, si trattava di una tragedia per l’intera Chiesa.

 

Tra questi due fronti – concordi nell’affermazione del fatto, ma opposti nel giudizio su di esso – si colloca la posizione del Magistero papale che parla di “novità nella continuità”. Paolo VI, nella Ecclesiam suam riprende la parola “aggiornamento” di Giovanni XXIII e dice di volerla tenere presente come “indirizzo programmatico”[3]. All’inizio del suo pontificato Giovanni Paolo II ribadì il giudizio del suo predecessore [4] e in più occasioni si espresse nella stessa linea. Ma è stato soprattutto l’attuale Sommo Pontefice Benedetto XVI a spiegare cosa intende il Magistero della Chiesa per “novità nella continuità”. Lo ha fatto pochi mesi dopo la sua elezione, nel noto discorso programmatico alla Curia romana del 22 Dicembre 2005. Ascoltiamone alcuni passaggi: “Emerge la domanda: Perché la recezione del Concilio, in grandi parti della Chiesa, finora si è svolta in modo così difficile? Ebbene, tutto dipende dalla giusta interpretazione del Concilio o – come diremmo oggi – dalla sua giusta ermeneutica, dalla giusta chiave di lettura e di applicazione. I problemi della recezione sono nati dal fatto che due ermeneutiche contrarie si sono trovate a confronto e hanno litigato tra loro. L’una ha causato confusione, l’altra, silenziosamente ma sempre più visibilmente, ha portato frutti. Da una parte esiste un’interpretazione che vorrei chiamare “ermeneutica della discontinuità e della rottura”; essa non di rado si è potuta avvalere della simpatia dei mass-media, e anche di una parte della teologia moderna. […] All’ermeneutica della discontinuità si oppone l’ermeneutica della riforma”.

 

Il papa ammette che una certa discontinuità e rottura c’è stata, ma essa non riguarda i principi e le verità di base della fede cristiana, ma alcune decisioni storiche. Tra queste annovera la situazione di conflittualità creatasi tra la Chiesa e il mondo moderno, culminata nella condanna in blocco della modernità sotto Pio IX, ma anche situazioni più recenti, come quella creata dagli sviluppi della scienza, dal nuovo rapporto tra le religioni con le implicazioni che esso ha per il problema della libertà di coscienza; non ultimo, la tragedia della Shoa che imponeva un ripensamento dell’atteggiamento verso il popolo ebraico. Scrive: “È chiaro che in tutti questi settori, che nel loro insieme formano un unico problema, poteva emergere una qualche forma di discontinuità e che, in un certo senso, si era manifestata di fatto una discontinuità, nella quale tuttavia, fatte le diverse distinzioni tra le concrete situazioni storiche e le loro esigenze, risultava non abbandonata la continuità nei principi – fatto questo che facilmente sfugge alla prima percezione. È proprio in questo insieme di continuità e discontinuità a livelli diversi che consiste la natura della vera riforma”.

 

Se dal piano assiologico, cioè dei principi e dei valori, passiamo al piano cronologico, potremmo dire che il Concilio rappresenta una rottura e una discontinuità rispetto al passato prossimo della Chiesa e rappresenta invece una continuità rispetto al suo passato remoto. In molti punti, soprattutto sul punto centrale che è l’idea di Chiesa, il concilio ha voluto operare un ritorno alle origini, alle fonti bibliche e patristiche della fede.

 

La lettura del Concilio fatta propria dal Magistero, quella cioè della novità nella continuità, aveva avuto un precursore illustre nel “Saggio sullo sviluppo della dottrina cristiana” del cardinal Newman, definito spesso, anche per questo, “il Padre assente del Vaticano II”. Newman dimostra che, quando si tratta di una grande idea filosofica o una credenza religiosa, come è il cristianesimo, “non si può giudicare dai suoi inizi quelle che sono le sue virtualità e le mete a cui tende. […]. A seconda delle nuove relazioni che essa si trova ad avere, sorgono pericoli e speranze e principi antichi riappaiono sotto forma nuova. Essa muta insieme a loro per restare sempre identica a se stessa. In un mondo soprannaturale le cose vanno altrimenti, ma qui sulla terra vivere è mutarsi e la perfezione è il risultato di molte trasformazioni”[5]

 

San Gregorio Magno anticipava, in qualche modo, questa convinzione quando affermava che la Scrittura “cum legentibus crescit”, “cresce con coloro che la leggono”[6]; cioè, cresce a forza di essere letta e vissuta, a misura che sorgono nuove domande e nuove sfide dalla storia. La dottrina della fede muta, dunque, ma per restare fedele a se stessa; muta nelle contingenze storiche, per non mutare nella sostanza, come diceva Benedetto XVI.

 

Un esempio banale, ma indicativo è quello della lingua. Gesù parlava la lingua del suo tempo; non l’ebraico che era la lingua nobile e delle Scritture (il latino del tempo!), ma l’aramaico parlato dalla gente. La fedeltà a questo dato iniziale non poteva consistere, e non consistette, nel continuare a parlare in aramaico ai tutti i futuri ascoltatori del vangelo, ma nel parlare greco ai Greci, latino ai Latini, armeno agli Armeni, copto ai Copti, e così di seguito fino ai nostri giorni. Come diceva Newman, è proprio mutando che spesso si è fedeli al dato originario.

 

2. La lettera uccide, lo Spirito da la vita

Con tutto il rispetto e l’ammirazione dovuti all’immenso e pionieristico contributo del cardinal Newman, a distanza di un secolo e mezzo dal suo saggio e con quello che la cristianità ha vissuto nel frattempo, non si può, tuttavia, non rilevare anche una lacuna nello svolgimento del suo argomento: la quasi totale assenza dello Spirito Santo. Nella dinamica di sviluppo della dottrina cristiana, non si tiene sufficiente conto del ruolo preminente che Gesù aveva riservato al Paraclito nel rivelare ai discepoli quelle verità di cui essi non potevano ancora “portare il peso” e nel condurli “alla verità tutta intera” (Gv. 16,12-13).

 

Che cos’é che permette di risolvere il paradosso e parlare di novità nella continuità, di permanenza nel cambiamento, se non appunto l’azione dello Spirito Santo nella Chiesa? Lo aveva capito perfettamente sant’Ireneo quando afferma che la rivelazione è come un “deposito prezioso contenuto in un vaso di valore che, grazie allo Spirito di Dio, ringiovanisce sempre e fa ringiovanire anche il vaso che la contiene” [7]. Lo Spirito Santo non dice parole nuove, non crea nuovi sacramenti, nuove istituzioni, ma rinnova e vivifica perennemente le parole, i sacramenti e le istituzioni create da Gesù. Non fa cose nuove, ma fa nuove le cose!

 

L’insufficiente attenzione al ruolo dello Spirito Santo spiega molte delle difficoltà createsi nella recezione del Concilio Vaticano II. La Tradizione, in nome della quale alcuni hanno rifiutato il concilio, era una Tradizione dove lo Spirito Santo non giocava alcun ruolo. Era un insieme di credenze e di pratiche fissato una volta per tutte, non l’onda della predicazione apostolica che avanza e si propaga nei secoli e, come ogni onda, non si può cogliere se non in movimento. Congelare la Tradizione e farla partire, o terminare, a un certo punto, significa farne una morta tradizione e non come la definisce Ireneo una “vivente Tradizione”. Charles Péguy esprime, da poeta, questa grande verità teologica: “Gesù non ci ha dato delle parole morte

Che noi dobbiamo chiudere in piccole scatole (O in grandi)

E che dobbiamo conservare in olio rancido…

Come le mummie d’Egitto.

Gesù Cristo non ci ha dato delle conserve di parole da conservare.

Ma ci ha dato delle parole vive da nutrire…

È da noi che dipende, infermi e carnali,

Di far vivere e di nutrire e mantenere vive nel tempo

Quelle parole pronunciate vive nel tempo”[8].

 

Bisogna dire subito però che sul fronte dell’opposto estremismo le cose non andavano diversamente. Qui si parlava volentieri dello “spirito del Concilio”, ma non si trattava, purtroppo, dello Spirito Santo. Per “spirito del Concilio si intendeva quel di più di slancio, di coraggio innovativo, che non sarebbe potuto entrare nei testi del Concilio a causa delle resistenze di alcuni e del necessario compromesso tra le parti.

 

Vorrei ora cercare di illustrare quella che a me sembra la vera chiave di lettura pneumatica del Concilio, cioè qual è il ruolo dello Spirito Santo nell’attuazione del Concilio. Riprendendo un pensiero ardito di sant’Agostino a proposito del detto paolino sulla lettera e lo Spirito (2 Cor 3,6), san Tommaso d’Aquino scrive: “Per lettera si intende ogni legge scritta che resta al di fuori dell’uomo, anche i precetti morali contenuti nel Vangelo; per cui anche la lettera del Vangelo ucciderebbe, se non si aggiungesse, dentro, la grazia della fede che sana”[9].

 

Nello stesso contesto, il santo Dottore afferma: “La legge nuova è principalmente la stessa grazia dello Spirito Santo che è data ai credenti”[10]. I precetti del Vangelo sono anch’essi la legge nuova, ma in senso materiale, quanto al contenuto; la grazia dello Spirito Santo è la legge nuova in senso formale, in quanto dà la forza di mettere in pratica gli stessi precetti evangelici. È quella che Paolo definisce “la legge dello Spirito che da la vita in Cristo Gesù” (Rom 8, 2).

 

Questo è un principio universale che si applica a ogni legge. Se perfino i precetti evangelici, senza la grazia dello Spirito Santo, sarebbero “lettera che uccide”, cosa dire dei precetti della Chiesa, e cosa dire, nel nostro caso, dei decreti del Concilio Vaticano II? La “implementazione”, o l’attuazione del Concilio non avviene dunque recto tramite, non bisogna cercarla nell’applicazione letterale e quasi meccanica del Concilio, ma “nello Spirito”, intendendo con ciò lo Spirito Santo e non un vago “spirito del concilio” aperto a ogni soggettivismo. Il Magistero papale è stato il primo a riconoscere questa esigenza. Giovanni Paolo II, nel 1981, scriveva: “Tutta l’opera di rinnovamento della Chiesa, che il Concilio Vaticano II ha così provvidenzialmente proposto e iniziato – rinnovamento che deve essere ad un tempo «aggiornamento» e consolidamento in ciò che è eterno e costitutivo per la missione della Chiesa – non può realizzarsi se non nello Spirito Santo, cioè con l’aiuto della sua luce e della sua potenza”[11].

 

3. Dove cercare i frutti del Vaticano II

C’è stata, nella realtà, questa sospirata “nuova Pentecoste”? Un noto studioso di Newman, Ian Ker, ha messo in luce il contributo che egli può dare, oltre che alla comprensione dello svolgimento del Concilio, anche alla comprensione del post-Concilio[12]. A seguito della definizione dell’infallibilità papale nel Concilio Vaticano I nel 1870, il cardinal Newman fu indotto a fare una riflessione generale sui concili e sul senso delle loro definizioni. La sua conclusione fu che i concili possono avere spesso effetti non intesi sul momento da quelli che vi parteciparono. Questi vi possono vedere molto di più, o molto di meno, di quello che in seguito tali decisioni produrranno.

 

In questo modo, Newman non faceva che applicare alle definizioni conciliari il principio dello sviluppo che aveva illustrato a proposito della dottrina cristiana in genere. Un dogma, come ogni grande idea, non si comprende appieno se non dopo che se ne sono viste le conseguenze e gli sviluppi storici. Dopo che il fiume –per usare la sua immagine – dal terreno accidentato che l’ha visto nascere, scendendo, trova infine il suo letto più ampio e profondo[13]. Successe così alla definizione dell’infallibilità papale che nel clima acceso del momento sembrò a molti contenere molto di più di quello che di fatto la Chiesa e il papa stesso desunsero da essa. Essa non rese ormai inutile ogni futuro concilio ecumenico, come qualcuno sul momento temette o sperò; il Vaticano II ne è la conferma[14].

 

Tutto ciò trova una singolare conferma nel principio ermeneutico di Gadamer della “storia degli effetti” (Wirkungsgeschichte), secondo cui per capire un testo bisogna tener conto degli effetti che esso ha prodotto nella storia, inserendosi in questa storia e dialogando con essa[15]. È quello che avviene in modo esemplare nella lettura spirituale della Scrittura. Essa non spiega il testo solo alla luce di ciò che lo ha preceduto, come fa la lettura storico-filologica con la ricerca delle fonti, ma anche alla luce di ciò che lo ha seguito, spiega la profezia alla luce della sua realizzazione in Cristo, l’Antico testamento alla luce del Nuovo.

 

Tutto questo getta una singolare luce sul tempo del post-Concilio. Anche qui le vere realizzazioni si collocano forse da una parte diversa da quella dove noi guardavamo. Noi guardavamo al cambiamento nelle strutture e istituzioni, a una diversa distribuzione del potere, alla lingua da usare nella liturgia, e non ci accorgevamo di quanto queste novità fossero piccole in confronto a quella che lo Spirito Santo stava operando. Abbiamo pensato di rompere con le nostre mani gli otri vecchi, mentre Dio ci offriva il suo metodo di rompere gli otri vecchi che consiste nel mettere in essi il vino nuovo.

 

Alla domanda se c’è stata una nuova Pentecoste, si deve rispondere senza esitazione: Sì! Quale ne è il segno più convincente? Il rinnovamento della qualità della vita cristiana, là dove tale Pentecoste è stata accolta. Il fatto dottrinalmente più qualificante del Vaticano II sono i primi due capitoli della Lumen gentium, nei quali si definisce Chiesa come sacramento e come popolo di Dio in cammino sotto la guida dello Spirito Santo, animata dai suoi carismi, sotto la guida della gerarchia. La Chiesa, insomma, come mistero e istituzione; come koinonia, prima che gerarchia. Giovanni Paolo II ha rilanciato questa visione facendo della sua attuazione l’impegno prioritario al momento di entrare nel nuovo millennio” [16].

 

Ci domandiamo: dov’è che questa immagine di Chiesa dai documenti è passata alla vita? Dov’è che essa ha preso “carne e sangue”[17]? Dov’è che la vita cristiana è vissuta secondo “la legge dello Spirito”, con gioia e convinzione, per attrazione e non per costrizione? Dov’è che la parola di Dio è tenuta in sommo onore, si manifestano i carismi, è più sentita l’ansia per una nuova evangelizzazione e per l’unità dei cristiani?

 

Trattandosi di un fatto interiore che avviene nel cuore delle persone, la risposta ultima a queste domande la conosce solo Dio. Dovremmo ripetere, a proposito della nuova Pentecoste, quello che Gesù diceva del regno di Dio: “Nessuno dirà: ‘Eccolo qui’, oppure: ‘Eccolo là’. Perché il regno di Dio è in mezzo voi” (Lc 17, 21). Possiamo tuttavia cogliere dei segni, aiutati anche dalla sociologia religiosa che si occupa di queste cose. Da questo punto di vista, la risposta che da più parti si da a quella domanda è: nei movimenti ecclesiali!

 

Bisogna precisare subito una cosa. Dei movimenti ecclesiali, fanno parte, nella sostanza se non nella forma, anche quelle parrocchie, associazioni di fedeli e nuove comunità, nelle quali si vive la stessa koinonia e la stessa qualità di vita cristiana. Da questo punto di vista, movimenti e parrocchie non vanno visti in opposizione o in concorrenza tra di loro, ma unite nella realizzazione, in modo diverso, di uno stesso modello di vita cristiana. Tra di esse vanno annoverate anche talune delle cosiddette “comunità di base, quelle in cui il fattore politico non ha preso il sopravvento su quello religioso.

 

Si deve insistere sul corretto nome: movimenti “ecclesiali”, non movimenti “laicali”. La maggioranza di essi sono formati, non da una sola, ma da tutte le componenti ecclesiali: laici, certo, ma anche vescovi, sacerdoti, religiosi, suore. Rappresentano l’insieme dei carismi, il “popolo di Dio” della Lumen gentium. È solo per ragioni pratiche (perché esiste già la Congregazione del clero e quella dei religiosi) se di essi si occupa il “Pontificio Consiglio dei laici”.

 

Giovanni Paolo II vedeva in questi movimenti e comunità parrocchiali vive “i segni di una nuova primavera della Chiesa”[18]. Nello stesso senso si è espresso, in diverse occasioni, Papa Benedetto XVI [19]. Nell’omelia della Messa crismale del Giovedì Santo del 2012 ha detto: “Chi guarda alla storia dell’epoca post-conciliare può riconoscere la dinamica del vero rinnovamento, che ha spesso assunto forme inattese in movimenti pieni di vita e che rende quasi tangibili l’inesauribile vivacità della santa Chiesa, la presenza e l’azione efficace dello Spirito Santo”.

 

Parlando dei segni di una nuova Pentecoste, non si può fare a meno di menzionare in particolare, se non altro per la vastità del fenomeno, il Rinnovamento carismatico, o Rinnovamento nello Spirito, anche se esso non è, propriamente parlando, un movimento ecclesiale nel senso sociologico del termine (non ha un fondatore, una struttura, una spiritualità propria), ma è piuttosto una corrente di grazia destinata a disperdersi nella Chiesa come una scarica elettrica nella massa.

 

Quando, per la prima volta, nel 1973, uno degli artefici maggiori del Vaticano II, il cardinal Suenens, sentì parlare del fenomeno, stava scrivendo un libro intitolato “Lo Spirito Santo – fonte delle nostre speranze”, ed ecco cosa racconta nelle sue memorie: “Smisi di scrivere il libro. Pensai che era una questione della più elementare coerenza prestare attenzione all’azione dello Spirito Santo, per quanto essa potesse manifestarsi in modo sorprendente. Ero particolarmente interessato dalla notizia del risveglio dei carismi, dal momento che il Concilio aveva invocato un tale risveglio”.

 

Ed ecco cosa scrisse dopo aver costatato di persona e vissuto dal di dentro tale esperienza, condivisa ora da milioni di altre persone: “Improvvisamente, san Paolo e gli Atti degli apostoli sembrano diventare vivi e divenire parte del presente; quello che era autenticamente vero nel passato, sembra accadere di nuovo sotto i nostri occhi. È una scoperta della vera azione dello Spirito Santo che è sempre all’opera, come Gesù stesso ha promesso. Egli mantiene la sua parola. È di nuovo una esplosione dello Spirito di Pentecoste, una gioia che era diventata sconosciuta alla Chiesa”[20].

 

I movimenti ecclesiali e le nuove comunità non esauriscono certo tutte le potenzialità e le attese di rinnovamento del Concilio, ma rispondono alla più importante di esse, almeno agli occhi di Dio. Essi non sono esenti da debolezze e a volte anche da derive parziali; ma quale altra grande novità è apparsa nella storia della Chiesa senza sbavature umane? Non avvenne la stessa cosa quando, nel secolo XIII, apparvero gli ordini mendicanti? Anche allora furono i pontefici romani, soprattutto Innocenzo III, a riconoscere ed accogliere per primi la grazia del momento e ad incoraggiare il resto dell’episcopato a fare altrettanto.

 

4. Una promessa adempiuta

Allora, qual è, ci domandiamo, il significato del Concilio, inteso come l’insieme dei documenti da esso prodotti, la Dei Verbum, la Lumen gentium, Gaudium et spes, Nostra aetate, ecc.? Li lasceremo da parte per attenderci tutto dallo Spirito? La risposta è contenuta nella frase con cui Agostino riassume il rapporto tra la legge e la grazia: “È stata data la legge perché si cercasse la grazia ed è stata data la grazia perché si osservasse la legge” [21]. Lo Spirito non dispensa dunque dal valorizzare anche la lettera, cioè i decreti, del Vaticano II; al contrario, è proprio lui che spinge a studiarli e a metterli in pratica. E difatti, fuori dell’ambito scolastico e accademico dove essi sono materia di discussione e di studio, è proprio nelle realtà ecclesiali ricordate sopra che essi sono tenuti in maggiore considerazione.

 

L’ho sperimentato su me stesso. Io mi sono liberato dai pregiudizi contro gli ebrei e contro i protestanti, assorbiti negli anni della formazione, non per aver letto Nostra aetate, ma per aver fatto anch’io, nel mio piccolo e per merito di alcuni fratelli, l’esperienza della nuova Pentecoste. Dopo ho sentito il bisogno di rileggere Nostrae aetate, come ho riletto la Dei Verbum dopo che lo Spirito ha fatto nascere in me un amore nuovo per la parola di Dio e per l’evangelizzazione. Il movimento però può essere nei due sensi: alcuni – per usare il linguaggio di Agostino – dalla lettera sono indotti a cercare lo Spirito, altri dallo Spirito sono spinti ad osservare la lettera.

 

Il poeta Thomas S. Eliot ha scritto dei versi che ci possono illuminare sul senso delle celebrazioni in atto per i 50 anni del Vaticano II: “Non dobbiamo arrestarci nella nostra esplorazione

E il termine del nostro esplorare

Sarà arrivare là donde siamo partiti

E conoscere il luogo per la prima volta” [22]

 

Dopo tante esplorazioni e controversie, siamo ricondotti anche noi là da dove siamo partiti, cioè all’evento del Concilio. Ma tutto il lavorio intorno ad esso non è stato vano perché, nel senso più profondo, solo ora noi siamo in grado di “conoscere il luogo per la prima volta”, cioè di valutarne il vero significato, sconosciuto agli stessi Padri del concilio.

 

Questo permette di dire che l’albero cresciuto dal concilio è coerente con il seme da cui è nato. Da che cosa è nato infatti l’evento del Vaticano II? Le parole con cui Giovanni XXIII descrive la commozione che accompagnò “l’improvviso fiorire nel suo cuore e dalle sue labbra della semplice parola concilio”[23], hanno tutti i segni di una ispirazione profetica. Nel discorso di chiusura della prima sessione egli parlò del concilio come di “una nuova desiderata Pentecoste, che arricchirà abbondantemente la Chiesa di energie spirituali”[24].

 

A 50 anni di distanza non possiamo che costatare il compimento da parte di Dio della promessa fatta alla Chiesa per bocca del suo umile servitore, il beato Giovanni XXIII. Se ci sembra che parlare di una nuova Pentecoste, sia per lo meno esagerato, visti tutti i problemi e le controversie sorti nella Chiesa dopo e a causa del Concilio, non dobbiamo far altro che andare a rileggerci gli Atti degli apostoli e costatare come problemi e controversie non mancarono neppure dopo la prima Pentecoste. E non meno accesi di quelli di oggi!

 

NOTE

 

[1] Cf. Il Concilio Vaticano II. Recezione e attualità alla luce del Giubileo, a cura di R. Fisichella, Ed. San Paolo 2000.

[2] Giovanni XXIII, Discorso di apertura del Concilio, nr. 6,5. (I testi del Concilio sono citati nella versione presente nel sito internet ufficiale del Vaticano).

[3] Paolo VI, Enc. Ecclesiam suam, 52; cf. anche Insegnamenti di Paolo VI, vol. IX (1971), p. 318.

[4] Giovanni Paolo II, Udienza generale del 1 Agosto 1979.

[5] J.H. Newman, Lo sviluppo della dottrina cristiana, Bologna, Il Mulino 1967, pp.46 s.

[6] Gregorio Magno, Commento a Giobbe XX,1 (CC 143 A, p. 1003).

[7] S. Ireneo, Contro le eresie, III, 24,1.

[8] Ch. Péguy, Le Porche du mystère de la deuxième vertu, La Pléiade, Paris 1975, pp. 588 s. (trad. ital. di M. Cassola, Milano 1978, pp. 60-62).

[9] Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, I-IIae, q. 106, a. 2.

[10] Ibid., q. 106, a. 1; cf già Agostino, De Spiritu et littera, 21, 36.

[11] Giovanni Paolo II, Lettera apostolica A Concilio Constantinopolitano I, 25 marzo 1981, in AAS 73 (1981) 515-527.

[12] I. Ker, Newman, the Councils, and Vatican II, in “Communio”. International Catholic Review, 2001, pp. 708-728.

[13] Newman, op. cit. p.46.

[14] Un esempio ancora più chiaro è quello che successe con il concilio ecumenico di Efeso del 431. La definizione di Maria come la Theotokos, Madre di Dio, nelle intenzioni del concilio e soprattutto del suo promotore Cirillo di Alessandria, doveva servire unicamente ad affermare l’unità di persona di Cristo. Di fatto, essa diede il via all’immensa fioritura di devozione alla Vergine e alla costruzione delle prime basiliche in suo onore, tra cui quella di Santa Maria Maggiore a Roma. L’unità di persona di Cristo fu definita in un altro contesto e in maniera più equilibrata, dal concilio di Calcedonia del 451.

[15] Cf H.G. Gadamer, Wahrheit und Methode, Tübingen 1960.

[16] Novo millennio ineunte, 42.

[17] I. Ker, art. cit. p.727.

[18] Giovanni Paolo II, Novo millennio ineunte,46.

[19] Cfr. il suo discorso ai movimenti ecclesiali la vigilia Pentecoste 2006 in: The Beauty of Being a Christian. Movements in the Church. Proceedings of the Second World Congress on the Ecclesial Movements and New Communities (Frascati 31 Maggio – 1 Giugno 2006), Roma, Libreria Editrice Vaticana 2007.

[20] Card. L.-J. Suenens, Memories and Hopes, Dublino, Veritas 1992, p. 267.

[21] Agostino, De Spiritu et littera ,19,34.

[22] T.S. Eliot, Four Quartets V , The Complete Poems and Plays, Faber & Faber, Londra 1969, p.197: “We shall not cease from exploration And the end of our exploring Will be to arrive where we started And know the place for the first time”

[23] Giovanni XXIII, Discorso di apertura del concilio Vaticano II, 11 Ottobre 1962, nr. 3,1

[24] Giovanni XXIII, Discorso di chiusura del primo periodo del concilio, 8 dicembre 1962, nr. 3,6.


L' ANNO DELLA FEDE,

E IL CATECHISMO DELLA CHIESA CATTOLICA

fra RANIERO CANTALAMESSA

prima predica di avvento 2012

7 dicembre 2012

 

 

1. Il libro “mangiato”

Nella predicazione alla Casa Pontificia, cerco di farmi guidare, nella scelta dei temi, dalle grazie o dalle ricorrenze speciali che la Chiesa vive in un dato momento della sua storia. Di recente abbiamo avuto l’apertura dell’anno della fede, il cinquantesimo anniversario del concilio Vaticano II e il Sinodo per l’evangelizzazione e la trasmissione della fede cristiana. Ho pensato perciò di svolgere in Avvento una riflessione su ognuno di questi tre eventi.

 

Comincio con l’anno della fede. Per non smarrirmi in un tema, la fede, che è vasto come il mare,  mi concentro su un punto della lettera “Porta fidei” del Santo Padre, precisamente là dove esorta caldamente a fare del  Catechismo della Chiesa Cattolica (di cui, tra l’altro, ricorre quest’anno il ventesimo anniversario di pubblicazione) lo strumento privilegiato per vivere fruttuosamente la grazia di questo anno. Scrive il papa nella sua lettera:

 

 “L’Anno della fede dovrà esprimere un corale impegno per la riscoperta e lo studio dei contenuti fondamentali della fede che trovano nel Catechismo della Chiesa Cattolica la loro sintesi sistematica e organica. Qui, infatti, emerge la ricchezza di insegnamento che la Chiesa ha accolto, custodito ed offerto nei suoi duemila anni di storia. Dalla Sacra Scrittura ai Padri della Chiesa, dai Maestri di teologia ai Santi che hanno attraversato i secoli, il Catechismo offre una memoria permanente dei tanti modi in cui la Chiesa ha meditato sulla fede e prodotto progresso nella dottrina per dare certezza ai credenti nella loro vita di fede”[1].

 

Non parlerò certo del contenuto del CCC, delle sue ripartizioni, criteri informativi; sarebbe come voler spiegare la Divina Commedia a Dante Alighieri.  Piuttosto vorrei sforzarmi di mostrare come fare perché questo libro, da strumento muto, come un violino di pregio posato su un panno di velluto, si trasformi in strumento che suona e scuote i cuori. La passione secondo Matteo di Bach rimase per più di un secolo una partitura scritta, conservata in archivi musicali, finché nel 1829 Felix Mendelssohn  ne allestì a Berlino una esecuzione  magistrale e da quel giorno il mondo seppe che melodie e cori sublimi erano racchiusi in quelle pagine rimaste fino allora mute.

 

Sono realtà diverse, è vero, ma qualcosa del genere avviene con ogni libro che parla della fede, compreso il CCC: si deve passare dalla partitura all’esecuzione, dalla pagina muta a qualcosa di vivo che fa vibrare l’anima. La visione di Ezechiele della mano tesa che porge un rotolo ci aiuta a capire cosa si richiede perché questo avvenga:

 

 “Io guardai, ed ecco una mano stava stesa verso di me, la quale teneva il rotolo di un libro; lo srotolò davanti a me; era scritto di dentro e di fuori, e conteneva lamentazioni, gemiti e guai. Egli mi disse: «Figlio d’uomo, mangia ciò che trovi; mangia questo rotolo, e va’ e parla alla casa d’Israele». Io aprii la bocca, ed egli mi fece mangiare quel rotolo. Mi disse: «Figlio d’uomo, nùtriti il ventre e riempiti le viscere di questo rotolo che ti do». Io lo mangiai, e in bocca mi fu dolce come del miele” (Ez 2,9-3,3).

 

Il Sommo Pontefice è  la mano che, in quest’anno, porge di nuovo alla Chiesa il CCC, dicendo a ogni cattolico: “Prendi questo libro, mangialo, riempitene le viscere”. Che significa mangiare un libro? Non solo studiarlo, analizzarlo, memorizzarlo, ma farlo carne della propria carne e sangue del proprio sangue, “assimilarlo”, come si fa materialmente con il cibo che mangiamo. Trasformarlo da fede studiata in fede vissuta.

 

Questo non è possibile farlo con tutta la mole del libro, e con tutte e singole le cose in esso contenute. Non è possibile farlo analiticamente, ma solo sinteticamente. Mi spiego. Bisogna cogliere il principio che informa e unifica il tutto, insomma il cuore pulsante del CCC. E cos’è questo cuore? Non è un dogma, o una verità, una dottrina o un principio etico; è una persona: Gesù Cristo! “Pagina dopo pagina –scrive il Santo Padre a proposito del CCC, nella stessa lettera apostolica – si scopre che quanto viene presentato non è una teoria, ma l’incontro con una Persona che vive nella Chiesa”.

 

Se tutta la Scrittura, come afferma Gesù stesso, parla di lui (cf. Gv 5,39), se essa è gravida di Cristo e si riassume tutta quanta in lui, potrebbe essere diversamente per il CCC che, della stessa Scrittura, vuole essere una esposizione sistematica, elaborata dalla Tradizione, sotto la guida del Magistero?

 

Nella Parte prima, dedicata alla fede, il CCC ricorda il grande principio di san Tommaso d’Aquino secondo cui “l’atto di fede del credente non si ferma all’enunciato, ma raggiunge la realtà” (Fides non terminatur ad enunciabile sed ad rem”)[2]. Ora, qual è la realtà, la “cosa” ultima della fede? Dio, certamente! Non, però, un dio qualsiasi che ognuno si raffigura a suo gusto e piacimento, ma  il Dio che si è rivelato in Cristo, che si “identifica” con lui al punto di poter dire: “Chi vede me vede il Padre” e “Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio, è lui che lo ha rivelato” (Gv 1,18).

 

Quando diciamo fede “in Gesù Cristo” non stacchiamo il Nuovo dall’Antico Testamento, non facciamo iniziare la vera fede con la venuta in terra di Cristo. Se così fosse, escluderemmo dal numero dei credenti lo stesso Abramo che chiamiamo “nostro padre nella fede” (cf. Rom 4,16). Identificando il Padre suo con “il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe” (Mt 22, 32) e  con il Dio “della legge e dei profeti” (Mt 22, 40), Gesù ha autenticato la fede ebraica, ne ha mostrato il carattere profetico, affermando che è di lui che essi parlavano (cf. Lc 24, 27. 44; Gv 5, 46). È questo che rende la fede ebraica diversa, agli occhi dei cristiani, da ogni altra fede e che giustifica la statuto speciale di cui gode, dopo il Concilio Vaticano II, il dialogo con gli ebrei rispetto a quello con altre religioni.

 

2. Kerygma e didachè

All’inizio della Chiesa era chiara la distinzione tra kerygma e didaché. Il kerygma, che Paolo chiama anche “il vangelo”, riguardava l’opera di Dio in Cristo Gesù, il mistero pasquale di morte e risurrezione, e consisteva in formule brevi di fede, come quella che si deduce dal discorso di Pietro il giorno di Pentecoste: “Voi l’avete crocifisso, Dio l’ha risuscitato e lo ha costituito Signore” (cf. Atti 2, 23-36), oppure: “Se con la bocca avrai confessato Gesù come Signore e avrai creduto con il cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvato” (Rom 10,9).

 

La didaché indicava invece l’insegnamento successivo alla venuta alla fede, lo sviluppo e la formazione completa del credente.  Si era convinti (Paolo soprattutto) che la fede, come tale, sbocciava solo in presenza del kerygma. Esso non era un riassunto della fede o una parte di essa, ma il seme da cui nasce tutto il resto. Anche i 4 Vangeli furono scritti dopo, precisamente per spiegare il kerygma.

 

Anche il più antico nucleo del credo riguardava Cristo, di cui metteva in luce la duplice componente, umana e divina. Un esempio di esso è ritenuto il versetto della Lettera ai Romani che parla di Cristo “nato dalla stirpe di Davide secondo la carne,  dichiarato Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santità mediante la risurrezione dai morti” (Rom 1,3-4). Ben presto questo nucleo primitivo, o credo cristologico, venne inglobato in un contesto più ampio, come il secondo articolo del simbolo di fede. Nascono, anche per esigenze legate al battesimo, i simboli trinitari giunti fino a noi.

 

Questo processo fa parte di quello che Newman chiama “lo sviluppo della dottrina cristiana”; è un arricchimento, non un allontanamento dalla fede originaria. Sta a noi oggi –in primo luogo ai vescovi, ai predicatori, ai catechisti – far risaltare il carattere “a parte” del kerygma come momento germinativo della fede. In un’opera lirica, per riprendere l’immagine musicale, c’è il recitativo e c’è il cantato e nel cantato ci sono gli “acuti” che scuotono l’uditorio e provocano emozioni forti, a volte anche brividi.  Ora sappiamo qual è l’acuto di ogni catechesi.

 

La nostra situazione è tornata ad essere la stessa del tempo degli apostoli. Essi avevano davanti a sé un mondo precristiano da evangelizzare; noi abbiamo davanti a noi, almeno per certi versi e in certi ambienti, un mondo post-cristiano da ri-evangelizzare. Dobbiamo ritornare al loro metodo, riportare alla luce “la spada dello Spirito” che è l’annuncio, in Spirito e potenza, di Cristo morto per i nostri peccati e risorto per la nostra giustificazione (cf. Rom 4,25).

 

Il kerygma non è però solo l’annuncio di alcuni fatti o verità di fede ben precisi; è anche un certo clima spirituale che si può creare qualunque cosa si dica, uno sfondo sul quale tutto si colloca.  Sta all’annunciatore, mediante la sua fede, permettere allo Spirito Santo di creare questa atmosfera.

 

Qual è allora, ci chiediamo, il senso del CCC? Lo stesso di quello che nella chiesa apostolica era la didachè: formare la fede, darle un contenuto, mostrarne le esigenze etiche e pratiche, portare la fede a rendersi “operante nella carità” (cf. Gal 5,6). Lo mette bene in luce un paragrafo dello stesso CCC. Dopo aver ricordato il principio tomistico che “la fede non termina nelle formulazioni, ma nella realtà”, esso aggiunge:

 

 “Tuttavia, queste realtà noi le accostiamo con l’aiuto delle formulazioni della fede. Esse ci permettono di esprimere e di trasmettere la fede, di celebrarla in comunità, di assimilarla e di viverne più intensamente”[3].

 

In questo appare l’importanza della terza “C” del titolo “Catechismo della Chiesa Cattolica”, cioè dell’aggettivo “cattolica”. La forza di alcune Chiese non cattoliche è di puntare tutto sul momento iniziale, la venuta alla fede, l’adesione al kerygma e l’accettazione di Gesù come Signore, visto come un “nascere di nuovo”, o come “seconda conversione”. Ma questo può divenire un limite se ci si ferma ad esso e tutto continua a ruotare intorno ad esso.

 

Noi cattolici abbiamo da imparare qualcosa da tali chiese, ma abbiamo anche tanto da dare. Nella Chiesa cattolica tutto ciò è l’inizio, non la fine della vita cristiana. Dopo quella decisione, si apre il cammino verso la crescita e la pienezza della vita cristiana e, grazie alla sua ricchezza sacramentale, al magistero, all’esempio di tanti santi, la chiesa cattolica è in una situazione privilegiata per condurre i credenti alla perfezione della vita di fede. Scrive il papa nella citata lettera “Porta fidei”:

 

 “Dalla Sacra Scrittura ai Padri della Chiesa, dai Maestri di teologia ai Santi che hanno attraversato i secoli, il Catechismo offre una memoria permanente dei tanti modi in cui la Chiesa ha meditato sulla fede e prodotto progresso nella dottrina per dare certezza ai credenti nella loro vita di fede”.

 

3. L’unzione della fede

Ho parlato del kerygma come dell’”acuto” della catechesi. Ma per produrre questo acuto non basta alzare il tono della voce, occorre altro. “Nessuno può dire: ‘Gesù è il Signore!’ [è questo l’acuto per eccellenza!] se non nello Spirito Santo” (1 Cor 15,3). L’evangelista Giovanni fa una applicazione del tema dell’unzione che si rivela particolarmente attuale in questo anno della fede. Scrive:

 

 “Quanto a voi, avete ricevuto l’unzione dal Santo e tutti avete conoscenza […]. L’unzione che avete ricevuta da lui rimane in voi, e non avete bisogno dell’insegnamento di nessuno; ma siccome la sua unzione vi insegna ogni cosa ed è veritiera, e non è menzogna, rimanete in lui come essa vi ha insegnato” (1 Gv 2, 20.27).

 

L’autore di questa unzione è lo Spirito Santo, come si deduce dal fatto che altrove la funzione di “insegnare ogni cosa” è attribuita al Paraclito come “Spirito di verità” (Gv 14, 26). Si tratta, come scrivono diversi Padri, di una “unzione della fede”: “L’unzione che viene dal Santo –scrive Clemente Alessandrino – si realizza nella fede”; “L’unzione è la fede in Cristo”, dice un altro scrittore della stessa scuola[4].

 

Nel suo commento, Agostino rivolge, a questo proposito, una domanda all’evangelista. Perché, dice, hai scritto la tua lettera, se quelli ai quali ti rivolgevi avevano ricevuto l’unzione che insegna ogni cosa e non avevano bisogno che alcuno li istruisse?  Perché questo stesso nostro parlare e istruire i fedeli? Ed ecco la sua risposta, basata sul tema del maestro interiore:

 

 “Il suono delle nostre parole  percuote l’orecchio, ma il vero maestro sta dentro […] Io ho parlato a tutti, ma coloro dentro i quali non parla quell’unzione, quelli che lo Spirito non istruisce internamente, se ne vanno via senza avere nulla appreso […]. È dunque  interiore il maestro che veramente istruisce; è Cristo, è la sua ispirazione ad istruire”[5].

 

C’è dunque bisogno di istruzione dall’esterno, c’è bisogno di maestri; ma la loro voce penetra nel cuore solo se ad essa si aggiunge quella interiore dello Spirito. “Noi siamo testimoni di queste cose e anche lo Spirito Santo, che Dio ha dato a quelli che gli ubbidiscono” (Atti 5, 32). Con queste parole, pronunciate davanti al sinedrio, l’apostolo Pietro non solo afferma la necessità della testimonianza interiore dello Spirito, ma indica anche qual è la condizione per riceverla: la disponibilità a obbedire, a sottomettersi alla Parola. È l’unzione dello Spirito che fa passare dalle enunciazioni di fede alla loro realtà. È un tema caro all’evangelista Giovanni quello del credere che è anche conoscere: “Noi abbiamo conosciuto e creduto l’amore  che Dio ha per noi” (1 Gv 4,16). “Noi abbiamo conosciuto e creduto che tu sei il Santo di Dio” (Gv 6, 69). “Conoscere”, in questo caso, come in genere in tutta la Scrittura, non significa quello che significa per noi oggi e cioè avere l’idea o il concetto di una cosa. Significa sperimentare, entrare in relazione con la cosa o con la persona [6]. L’affermazione della Vergine: “Non conosco uomo”, non voleva certo dire non so cos’è un uomo …

 

Fu un caso di evidente unzione della fede quello che Pascal sperimentò nella notte del 23 Novembre 1654 e che fissò con brevi frasi esclamative in uno scritto trovato dopo la morte cucito all’interno della sua giacca:

 

 “Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe, non dei filosofi e dei dotti. Certezza. Certezza. Sentimento. Gioia. Pace. Dio di Gesù Cristo […]. Lo si trova soltanto per le vie del Vangelo. […]. Gioia, gioia. Gioia, lacrime di gioia. […] Questa è la vita eterna, che essi conoscano te, solo vero Dio e colui che hai mandato: Gesù Cristo”[7].

 

L’unzione della fede avviene di solito quando, su una parola di Dio o su una affermazione di fede, cade improvvisamente l’illuminazione dello Spirito Santo, accompagnata di solito da una forte emozione. Ricordo che un anno, nella festa di Cristo Re, ascoltavo nella prima lettura della Messa la profezia di Daniele sul Figlio dell’uomo:

 

 “Io guardavo, nelle visioni notturne, ed ecco venire sulle nuvole del cielo uno simile a un figlio d’uomo; egli giunse fino al vegliardo e fu fatto avvicinare a lui; gli furono dati dominio, gloria e regno, perché le genti di ogni popolo, nazione e lingua lo servissero. Il suo dominio è un dominio eterno che non passerà, e il suo regno è un regno che non sarà distrutto” (Dan 7,13-14).

 

Il Nuovo Testamento, si sa, ha visto realizzata la profezia di Daniele in Gesù; lui stesso davanti al sinedrio la fa sua (cf. Mt 26, 64); una frase del testo è entrata perfino nel credo (“cuius regnum non erit finis”). Io conoscevo, dai miei studi, tutto questo, ma  in quel momento era un’altra cosa. Era come se la scena si svolgesse lì, sotto i miei occhi. Sì, quel figlio dell’uomo che si avanzava era proprio lui, Gesù. Tutti i dubbi e le spiegazioni alternative degli studiosi, che pure conoscevo, mi sembravano, in quel momento, semplici pretesti per non credere. Sperimentavo, senza saperlo, l’unzione della fede.

 

Un’altra volta (credo di aver condiviso già in passato questa esperienza che però aiuta a capire) assistevo alla Messa di Mezzanotte presieduta da Giovanni Paolo II in San Pietro. Arrivò il momento del canto della Kalenda, cioè la solenne proclamazione della nascita del Salvatore, presente nell’antico Martirologio e reintrodotta nella liturgia natalizia dopo il Vaticano II:

 

 “Molti secoli dalla creazione del mondo…

Tredici secoli dopo l’uscita dall’Egitto…

Nella centonovantacinquesima Olimpiade,

Nell’anno 752 dalla fondazione di Roma…

Nel  quarantaduesimo anno dell’impero di Cesare Augusto,

Gesù Cristo, Dio eterno e Figlio dell’eterno Padre, essendo stato concepito per opera dello Spirito Santo, trascorsi nove mesi, nasce a Betlemme di Giudea dalla Vergine Maria, fatto uomo”.

 

Giunti a queste ultime parole provai una improvvisa chiarezza interiore, per cui ricordo che dicevo tra me: “È vero! È tutto vero questo che si canta! Non sono soltanto parole. L’eterno entra nel tempo. L’ultimo avvenimento della serie ha rotto la serie; ha creato un “prima” e un “dopo” irreversibili; il computo del tempo che prima avveniva in relazione a diversi avvenimenti (olimpiade tale, regno del tale), ora avviene in relazione a un unico avvenimento”: prima di lui, dopo di lui. Una commozione improvvisa mi attraversò tutta la persona, mentre potevo solo dire: “Grazie, Santissima Trinità, e grazie anche a te, Santa Madre di Dio!”.

 

L’unzione dello Spirito Santo produce anche un effetto, per così dire, “collaterale” nell’annunciatore: gli fa sperimentare la gioia di proclamare Gesù e il suo Vangelo. Trasforma l’evangelizzazione da incombenza e dovere, in un onore e un motivo di vanto. È la gioia che conosce bene il messaggero che reca a una città assediata l’annuncio che l’assedio è stato tolto, o l’araldo che nell’antichità correva avanti a portare al popolo l’annuncio di una vittoria decisiva ottenuta sul campo dal proprio esercito. La “lieta notizia”, prima ancora che chi la riceve, rende lieto chi la reca.

 

La visione di Ezechiele del rotolo mangiato si è realizzata una volta nella storia in senso anche letterale e non solo metaforico. È stato quando il rotolo delle parole di Dio si è racchiuso in una sola Parola, il Verbo. Il Padre l’ha porto a Maria; Maria lo ha accolto, se ne è riempita, anche fisicamente, le viscere, e poi l’ha dato al mondo, lo ha “proferito” partorendolo. Lei è il modello di ogni evangelizzatore e di ogni catechista. Ci insegna a riempirci di Gesù per darlo agli altri. Maria ha concepito Gesù “per opera dello Spirito Santo” e così deve essere anche di ogni annunciatore.

 

Il Santo Padre conclude la sua lettera di indizione dell’anno della fede con un richiamo alla Vergine: “Affidiamo, scrive, alla Madre di Dio, proclamata “beata” perché “ha creduto” (Lc 1,45), questo tempo di grazia”[8]. A lei chiediamo di ottenerci la grazia di sperimentare, in questo anno, tanti momenti di unzione della fede. “Virgo fidelis, ora pro nobis”. Vergine credente, prega per noi.

 

 

 

 

 

 

 

NOTE

 

[1] Benedetto XVI, Lett. apost. “Porta fidei”, n.11

[2] S. Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, II-II, 1,2,ad 2; cit. in CCC, n.170.

[3] CCC, n. 170

[4] Clemente Al. Adumbrationes in 1 Johannis (PG 9, 737B); Homéliies paschales (SCh 36, p.40): testi citati da  I. de la Potterie, L’unzione del cristiano con la fede, in Biblica 40, 1959, 12-69.

[5] S. Agostino, Commento alla Prima Lettera di Giovanni 3,13  (PL  35, 2004 s).

[6] Cf. C.H. Dodd, L’interpretazione del Quarto Vangelo, Brescia, Paideia1974, pp. 195 s.

[7] B. Pascal, Memoriale, ed. Brunschvicg.

[8] “Porta fidei”, nr. 15.